Montagne raccontate

Racconti, confessioni ed aneddoti degli amici di ATHT

Se la montagna è l'argomento per eccellenza della pubblicistica e della narrativa sportiva e non a livello mondiale ci sarà pur un motivo... Forse perché la montagna è un coacervo inestricabile di passioni, sentimenti, bellezza, apparente inavvicinabilità, mistero; forse perché il senso del divino indubbiamente vi alberga ed anche il più indefesso degli atei non può rimanere talvolta attonito o dubbioso di fronte al sentore dell'infinito che promana dalle alte terre, quasi rilasciassero un'inqualificabile sostanza eterea. La montagna sa stregare e conquistare con i suoi mille volti. Una malia che fisicamente si manifesta nel profumo delle sue resinose pecciete, nell'indefinibile e penetrante flavore delle sue nevi, nella stupefacente seduzione delle sue brume autunnali che ne fasciano i fianchi avvolgendo le isolate baite al limitare dei pascoli quasi volessero catturarle in un'immobilità che prelude il gelo del lungo inverno.

Per questa ragione, perché riteniamo che la montagna, il suo mondo, le sue genti, il privilegio di appartenervi anche se per pochi giorni o per poche ore non possa in alcun modo essere ridotto o limitato a gradi, percorsi, attrezzatura, a tutto ciò che inevitabilmente trascende un approccio tecnicistico al "vivere la montagna", abbiamo deciso di aprire questa pagina. L'intento non è velleitariamente culturale; semplicemente riteniamo sia interessante e piacevole inserire in un sito dedicato essenzialmente alle pratiche sportive legate alla montagna il contributo, l'esperienza, le confessioni e le impressioni di coloro che da molto o da poco hanno fatto della montagna un'importante tessera del puzzle della propria esperienza di vita.

L'invito a partecipare con racconti/aneddoti/confessioni/interviste è esteso a tutti gli amici di ATHT; il materiale inviato verrà vagliato dall'amministrazione; vi raccomandiamo di unire, là dove possibile, un minimo di documentazione fotografica in modo tale da permettere l'assemblamento di una web page con l'obiettivo di rendere più piacevole ed interessante la lettura dei testi.

Un grazie a tutti i futuri collaboratori!
Maggio 2011
Qualche volta sedetevi e state ad ascoltare i vecchi
di Alberto Damioli
Maggio 2011
Dom, la vetta è più in là
di Paolo Amadio
Ottobre 2011
Crescendo.....gerundio presente
di Francesco Rigosa
Ottobre 2011
Peppiniel - Il mio personalissimo ricordo di Beppe Chiaf
di Alberto Damioli
Novembre 2011
This is Patagonia?
di Francesco Salvaterra
Gennaio 2012
Il volo della Grola - esplorazione nel Gruppo di Brenta
di Francesco Salvaterra
Febbraio 2012
On the Skyways - Sulle Vie del Cielo
di Paolo Amadio
Febbraio 2012
Che senso ha
di Alberto Melgrati
Novembre 2014
Il Castello di Gandalf - Esplorazione in Adamello nell'A.D. 2015
di Paolo Amadio
Dicembre 2020
La Falesia di Lodrino "Francesco Cancarini"
di Andrea Pintossi
Settembre 2010
Atlantica
di Paolo Amadio
Agosto 2006
Apertura di "Prigionieri del sogno"
di Paolo Amadio

Qualche volta sedetevi e state ad ascoltare i vecchi

Magnifici erano i tempi dove riuscivamo a stare in punta di scarpette sui microcristalli della tonalite di Val Salarno con il pianta spit a mano ad aprire nuove vie verso l'alto, con l'ultima protezione a 10 metri.. E a sentire uscire il fiato della terra davanti all'imbocco oscuro di una grotta inesplorata.

Una delle fortune della mia generazione è di aver vissuto la parte finale di quell'era o meglio di quei tempi, in cui ancora i giovani (non sempre) si sedevano ad ascoltare i racconti degli anziani. Non vi rendete conto se non in parte, quale patrimonio andate perdendo, che ogni giorno scivola di qualche centimetro verso l'abisso del dimenticatoio e l'oblio del non ricordo. Una fonte inesauribile di consigli, costruita sul filo sottile tra favola e leggenda, vita vissuta o racconti tramandati da tempi remoti sconosciuti persino al narratore del momento. Fortuna ho detto, per quanto mi riguarda che, nei momenti d'incertezza della vita quotidiana, su una parete, negli angoli di una grotta, davanti a un pendio di neve "dall'odore" di bruciato, sotto una enorme stalattite di ghiaccio che lo stesso peso rischiava di strappare, la mia testa sia andata a pescare nell'esperienza altrui; talvolta in gioventù ero riuscito a fermarmi ad ascoltare nonostante il mio carattere mi portasse sempre ad essere Davide davanti a Golia (fortuna sfacciata ho detto). Non si pensi che non abbia corso i miei bei rischi di gioventù e qualcuno anche in età più avanzata; dalle fughe dalle pattuglie dei carabinieri di controllo, ben sapendo che la marmitta del "cinquantino", per fargli guadagnare qualche cavallo era rigorosamente senza anima. Allora difficilmente si rischiava di prendere una raffica di mitraglietta nella schiena; al massimo ti tiravano dietro la paletta bianca e rossa. Certi che il mitico pulmino Fiat 850 della Benemerita mai ci avrebbe raggiunto. Sotto questo aspetto le "dritte" giuste venivano dai fratelli maggiori, dagli zii quasi coetanei o dagli amici pizzicati precedentemente e finite, con il maresciallo della stazione per la ramanzina, davanti all'uscio di casa con la mamma in lacrime.

Oppure nelle spensierate calde estati passate sul lago d'Iseo dopo la chiusura delle scuole dove la torre del porticciolo dell'isola di Loreto diventava lo scoglio della nostra Acapulco locale. Dall'alto del terrazzino guardare l'acqua in basso faceva venire la famosa pelle d'oca ancora prima di toccarla; ma anche in questo frangente non era pura pazzia. Sapevamo esattamente dove e in che momento saltare (il punto dove il lago è più profondo e privo di sporgenze rocciose), per essere stati a sentire e ad osservare pazientemente i migliori e più vecchi tuffatori locali. Certamente non si aboliva l'alto rischio, ma non era un tuffo incosciente nel buio.

Racconti e attente osservazioni di chi ci aveva preceduto nell'impresa, aiutavano a far rientrare il rischio su valori accettabili, anche se da molti (i vecchi) non condivisa ovviamente.

Addirittura oggi si accompagnano i figli a scuola o all'oratorio, nonostante le strutture siano a 200 metri da casa.. A sei anni sapevamo attraversare la strada di un centro cittadino, guardare il marmo agli angoli delle vie con inciso come da secoli s'usa il nome di una strada o di una piazza per sapere la nostra posizione in una città e per memorizzarla per il futuro. Oggi no; se chiedete a un giovane dove si trova per andare a prenderlo, la risposta sarà, vicino al Mc Donalds tale.., al locale tal'altro. Sapevamo anche che non era il caso di attraversare certi giardini pubblici al calare della sera per non correre il rischio che "qualcuno" ci chiedesse di fargli toccare quello che avevamo nei calzoni. Noi vestivamo al Marinara con brache rigorosamente corte in estate e in inverno (alla zuava con i calzettoni di lana, con la bellissima camicia Carlo Mauri a scacchi colorati ad arrampicare). Non eravamo dilettanti allo sbaraglio, ma crescevamo con il ritmo naturale della vita, senza erigere muri e barricate a difesa; certamente non migliori della gioventù del terzo millennio, solamente diversi nell'approccio alla vita. Potrei continuare per ore o per diverse pagine, preferisco però tentare una mia personalissima analisi.

Il pensiero ricorrente è: cosa possiamo fare e dare a questi giovani perché rischino il meno possibile la pelle (in grotta, in montagna, sulla roccia e sul ghiaccio, in falesia, nella quotidianità di tutte le 365 albe e tramonti di un anno..). La certezza è che oggi tutto è diventato più difficile e complicato di allora; anche respirare quella miscela così povera di ossigeno e ricca d'ogni altra schifezza. In parte è colpa anche di noi genitori, che non raccontiamo più ai figli il passato e le favole dei nostri nonni; terrorizzati al solo pensare che ci credano non tecnologici e aggiornati con i tempi, i famosi matusa della nostra gioventù anni 60 e 70.

Sempre più stiamo perdendo quei sensi dell'animale che in qualche angolino albergano ancora in noi, grazie ai telefonini, alle radio, agli orologi tuttofare, ai gps, alle strade, alle funivie, agli elicotteri ed alle altre mille tecnologie che relegano quel famoso sesto senso all'ultimo posto della graduatoria di cose da mettere nello zaino.

Spero di non essere testimone tra poco di simulatori elettronici per l'arrampicata o giochi della Playstation per salite dai 3000 metri ai 9000 con discesa in parapendio virtuale, così non ci sarà più nemmeno bisogno di sporcare le mani nella magnesite o soffrire quota e freddo. Certo con questi artefici il rischio sarà azzerato totalmente. Non ho nessuna formula magica, ma solo un bagaglio di consigli venuti dalla mia esperienza e da quella di altri che hanno saputo e voluto trasmetterla.

Una parte di un antico detto delle arti marziali dice: "Guarda e ricorda" e inizierei da queste due parole che, se divise, ben poco ci possono dire, ma unite possono avere la forza di creare una formula magica. Osservate, guardate, non siate timidi e aggiungete anche qualche domanda, tornate a guardare chi arrampica bene, non troppo lento, ma neanche troppo nervosamente e velocemente.

Osservatelo mentre si lega la corda all'imbrago, senza farsi distrarre da musica, chiacchiere e barzellette, in quel momento gli tornano nella testa le decine di incidenti di falesia e montagna per nodi non finiti o addirittura non fatti per distrazione. Il tipo fa' proprio al caso vostro. I suoi piedi sanno sempre dove andare (e li appoggia una sola volta), le dita armonicamente vanno a posizionarsi sugli appigli, moschettona dalla giusta parte i rinvii con la stessa facilità di quando abbassate il vetro elettrico dell'auto. Non per ultimo, prima di attaccarsi alla sosta di calata la visiona in cerca di eventuali problemi della stessa. Non parla molto, ma se interrogato saprà esaudire i vostri quesiti motori e tecnici, condendo anche con note ambientali, paesaggistiche, storiche. In salite di più tiri rispetta le altre cordate, che esse siano davanti o che seguano, senza sorpassi da gran premio o scaricando pietre quasi volutamente. Usa in queste salite sempre il casco, come il suo compagno e se uno dei due ne è sprovvisto, entrambi girano i tacchi per cappuccio e brioche (al sottoscritto va' benissimo anche un pirlo rigorosamente con il Campari).

Vive intensamente i suoi momenti, ma non si dispera quando piove e la roccia come è nel ciclo naturale della meteo si "BAGNA". Non fidatevi eccessivamente degli scalatori che per qualche ora d'arrampicata si farebbero assicurare dal proprio cane; siamo d'accordo che Fido è il migliore amico dell'uomo, ma non esageriamo. Non parte per salite di misto o ghiaccio quando lo zero termico viene dato in pieno inverno all'altezza della cima del Monte Bianco. Certamente non è facile trovare tante qualità nel vicino della porta accanto. Si può costruire un'ottima cordata semplicemente avendo l'umiltà e la tranquillità di non voler bruciare le tappe del cammino che soggettivamente può essere più o meno lungo per arrivare a un buon livello (il famoso GRADO esteso a qualsiasi ambiente sia esso di roccia o di ghiaccio o mescolati insieme). Un'altro aspetto da non sottovalutare è la facoltà di rispettare gli altri (arrampicatori) non denigrando chi arranca in falesia per mancanza di allenamento in quel momento o perché il suo grado massimo è il 6c, 6c che sale in falesia come tranquillamente lo fa' sulla "via del Pesce" in Marmolada. La reciprocità è ovvia: falesista/alpinista, alpinista/falesista, l'uno rispetti l'altro. Quanto detto vale anche per il principiante che vuole imparare, anzi siate prodighi nell'aiutarlo tecnicamente e mentalmente come dei Maestri Jedi.

Gli esborsi di denaro, tanto o poco, per la Nostra passione, fate sì che siano investiti tendendo più alla sicurezza che alla moda. Non pensateci più di un nano secondo ad abbandonare un moschettone, un rinvio, una fettuccia cucita nuova, quando siete seriamente in difficoltà o incalzati dalla bufera. Sotto questo aspetto non riesco ancora a convincermi delle scelte di aziende ed anche degli acquirenti di queste, sulla produzione di corde singole da 9 mm e qualcosina (dove arrestare una caduta diventa cosa seria e gli spigoli vivi della roccia sono "da guardare e non toccare"). Ottimi questi nastri di fibre sintetiche per chi sale l'8C quasi a vista, ma per chi arriva al massimo al 6c/7a come la maggior parte della tribù arrampicatoria, gli obsoleti cordoni da 10/10,5 mm vanno tutt'ora benissimo (visti anche gli avvicinamenti alle falesia irrisori, parliamo di minuti). Conosciate voi stessi, ma altrettanto bene i materiali e le tecniche da adottare nella splendida attività dell'arrampicata. La sicurezza a mio avviso si ottiene anche nel rispettare l'ambiente naturale, tenendolo decorosamente pulito (di latrine e discariche a cielo aperto ne abbiamo a sufficienza). Non sradicate o tagliate piante se non strettamente necessario; non abbandonate cerotti per le dita e vecchi cordoni; i vostri bisogni sotterrateli. Questi ambienti naturali (pareti di roccia o ghiaccio) devono essere messi in sicurezza ogni qualvolta notiate pietre pericolanti, appigli malsicuri, aree sottostanti i tiri non adeguate per la vicinanza di salti pericolosi; "sfrangiate" nei limiti del possibile formazione ghiacciate sospese. In pratica pensate anche agli altri.
Montagne Raccontate
Apertura a metà degli anni '80 in Val Miller (Adamello).
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Apertura negli anni duemila al Monte Colt (Arco di Trento).
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Anni '90 in Lavaredo.
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Dry tooling al Bus del Quai.
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Ice climbing in Val Remir.
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Una Maddalena diversa.
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Verticalità e megie cromatiche della dolomia del Brenta.
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Febbraio 2011: dry tooling alla nuova falesia "Morgana" in Val Adamè.
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ALPINISMO e MONTAGNA, PREMESSA: come si legge su tutti i manuali "l'arrampicata e l'alpinismo sono attività potenzialmente pericolose.."; quanto di seguito è ciò scrivevo sulle dispense dei corsi di speleologia del Gruppo Grotte Brescia come introduzione alla Sicurezza (note credo applicabili anche alla montagna e all'alpinismo).

Solitamente gli speleologi sono persone ben addestrate e abituate ad operare in condizioni ostili nelle cavità naturali; spesso questo li porta a comportarsi all'esterno con baldanza e in alcuni casi con superficialità. Queste condizioni accadono in particolare modo all'uscita dalle grotte e nei trasferimenti alle auto.

Non dimentichiamo mai che la speleologia (e l'alpinismo) si fanno in montagna, in alcuni casi in condizioni estreme. Ottimi e buoni speleologi il più delle volte si trasformano in pessimi alpinisti e scialpinisti o in mediocri arrampicatori. Fuori da una grotta, come accade al termine di una difficile via d'arrampicata o di una salita impegnativa in sci, il rilassamento e la deconcentrazione abbassano il livello di guardia a livelli minimi; di conseguenza la sicurezza è nettamente compromessa. All'esterno le condizioni possono essere mutate: forti nevicate, temporali, nebbia fittissima, gelicidio.

I pericoli in montagna sono ovunque. Prendere coscienza di questo attenua notevolmente il potere malefico di situazioni imprevedibili. Il rischio in montagna è irriducibile, ma la capacità di scelta responsabile ed intelligente ci riportano nei binari della sicurezza. Conosciamo prima i pericoli, senza ricercarli per meglio evitarli. La montagna di per sé non è un mostro sanguinario; l'ignoranza, la superficialità, la presunzione, possono trasformarla in tale. Le responsabilità di un incidente sono spesso da ricercarsi nella vittima stessa. Quando si verifica un imprevisto il distrarsi è la prima imprudenza.

Questa invece era la conclusione:
...come avrete capito, solo una volta nel proprio letto al calduccio si è certi di avere concluso un'avventura speleologica o alpinistica (anche se il dottor Camerini sostiene che il maggior numero di decessi nel mondo avviene in un letto...). Quindi anche in macchina allacciate le cinture di sicurezza e tenete sempre a portata la foto del vostro istruttore che vi dice:" Non correre, pensa a me"!

Parlando di ALPINISMO, una delle attività più inutili sulla faccia della terra, come la definivano grandi alpinisti, ma che quasi sempre prende anima e corpo d'ognuno, ci si addentra in un ginepraio senza uscita e non vorrei dilungarmi più di tanto. Certamente ogni singolo ha la libertà di interpretare, nel rispetto di se stesso, degli altri, dell'ambiente, ...LA SUA MONTAGNA, che sia una semplice camminata su sentiero o la Nord del Cervino.

Fuga per la libertà la definirei, fondamentale però che non diventi carcere duro tipo Cayenna.

Spazi liberi ed incontaminati a tutti i livelli ne esistono ancora, basterebbe vederli o solamente sognarli per renderli reali.

Ci faccia pensare l'esempio scaturito da una delle innumerevoli discipline dell'alpinismo, le scalate su cascate di ghiaccio di bassa difficoltà, ad esempio II/3, dove in stagione oggigiorno, in Val Daone nei fine settimana, sembra d'essere in una qualsiasi falesia di Arco nei giorni di affollamento. Mentre le cosiddette vie classiche di roccia non hanno più code come un tempo all'attacco. Frutto della commercializzazione di ogni sfera della montagna che porta molti a sentirsi invincibili con un paio di Rambo ai piedi e nelle mani due Nomic o a seguire la logicissima linea dettata dagli spit, per poi magari perdersi sulla normale al Campanil Basso.

Alla fine purtroppo può anche accadere che rimanga travolto qualcuno sotto una valanga su quella cascata facile facile, ma che era anche il più bel colatoio di slavine del reame; o bloccato in parete per aver sbagliato le doppie. Ricordiamoci che non tutti siamo dei "numero 1" alla Cassin e Bonatti o recordmen dell'Eiger e del Capitan o della salita (slegati.) del Pesce. Sicuramente è difficile discostarsi dagli standard della società attuale anche in montagna; ma almeno proviamoci.

Citando una frase da caserma: "l'anzianità fa' GRADO", ovviamente per chi riesce a raggiungerla.

E alla fine dopo questo tortuosa arrampicata (allungate i rinvii) tra frasi e parole .., non sempre è una faccenda di gradi.

Alberto Damioli (BIBO)

Dom, la vetta è più in là

Vi sono montagne che assurgono a desiderio; altre a mito. Altre apparterranno sempre ai ricordi significativi di uno o della collettività. Alla prima categoria sono demandabili esperienze particolari, di realizzazione, successo, difficoltà o fallimento. Nella mia individuale piccola storia alpinistica il Dom occupa una parte a sé. Non troppo difficile, anche se non stupido. Fisicamente impegnativo senza essere estremo. Lontano; ed indubbiamente magnifico.

Già il suo nome rimanda all'immaginifico significato di Duomo che chiunque ne ammiri dal vivo o no le suadenti vestigia del versante più nascosto _ inevitabilmente il Nord _ finisce per attribuirvi. Un'associazione facile che non necessita sforzi di fantasia o astruse elucubrazioni. Il Dom è là; duomo di luci ed ombre; più luci, indubbiamente; cristallo nelle trasparenze di un'aria over quattromila; fasciato d'azzurro; di seracchi avvolto fino a svettare _ nomen omen _ nella sua elegante parte terminale a guisa di gotica cupola in una perfezione di forme di cuspide di razza; una Signora Cima; per dirla romanticamente all'antan.

Lo devo all'amicizia l'esserci stato. Perché per quanto abbia fatto, faccio e forse farò il ghiaccio ed il misto westeralpen non sarà mai il mio pane. Orientalista rimango. Sono e rimarrò. Abbarbicato al sole delle mie immensamente amate montagne di Dolomieu; al loro caldo sole; alle loro nere pecciete a fasciarne gli abbacinanti slanci; ai loro cullanti vaccini scampanii; alle lore enrosadire ad arcanizzarne gli impareggiabili ultimi attimi del giorno; attimi da assaporare fino all'estremo cupreo riflesso con accanto le persone amate. Lo devo all'amicizia dunque. Una consolidata. Un'altra istantanea e necessaria come solo lo può essere in quel mondo. Che ha le sue regole, dure ed affascinanti; non scritte ma chiaramente tracciate nell'esperienza di chiunque abbia avuto occasione di confrontarvisi.

"Gha la fo po! So sciopat!!". Un'ammissione del genere da parte di Sandro, uomo tutto di un pezzo e dalla determinazione leggendaria mi lascia veramente perplesso. Mi sforzo di convincerlo. Ma io stesso, con alle spalle, a differenza di lui, una stagione di tutto rispetto, mi sento un po' alle corde. Fa un freddo cane; l'aria è swarowskyana e la cima è ancora lontana; cinquecento metri più in là; anzi, più in alto. E tutti oltre la fatidica quota 4000. "Vai! Se raggiungi gli svizzeri ce la fai di sicuro!". Sono tremendamente incerto. Me ne stò lì un attimo. Guardo gli svizzeri, i due ragazzi conosciuti la sera prima alla Domhütte che viaggiano spediti verso il cuore della salita; con un lungo diagonale ascendente stanno entrando nel versante Nord del Dom, il versante interamente di ghiaccio e neve che centinaia di volte ho ammirato in fotografie e stampe d'epoca; una in particolare mi è impressa: sciatori di inizio secolo, giacchette attillate di panno; cappelli a falde larghe; sci chilometrici senza lamine e bastoncini con rondelle larghe trenta centimetri; fantastici pionieri; Marcel Kurtz sull'ultimo ripido tratto quasi a sfiorare con il palmo teso il culmine della celestiale cattedrale. Sono in fermento. Insisto. Un altro netto rifiuto che di una sincera amicizia ha tutto. E una scusante si fa necessariamente strada. E' la terza volta che lo tento sto bestione. Lui è solo al primo tentativo. E ha un'esperienza di quota dieci volte superiore alla mia. Lo saluto e scatto come una faina all'inseguimento dei fuggitivi. Quando li ribecco ho la lingua sotto le lamine. E i successivi cento metri di dislivello sono da Golgota. Inizia la zona seriamente crepacciata. "Wont you join us?" ("vuoi unirti a noi?"). Ostrega se lo voglio. Non me piace n'a sega girare a strisciaguinzaglio tra stò buchi! "Yes, yes, thank you friends!!". Mi metto in mezzo e sono pronto a schiattare pur di rimanere attaccato alla combriccola. Tristan è un mastino. Mi ricorda un altro uomo dei ghiacci che rimarrà sempre nella mia insignificante storia alpinistica personale. Attacca il ripido pendio con decisi colpi di lamina e passa oltre anche dove io mi fermerei due volte a pensare. Le "z" si fanno secche e tirate. Piccole superficiali slavinette. Eccola. Eccola maledizione. Ci siamo. Duecento metri di dislivello. Kurtz in giacchetta e sci lunghi duemetri-e-trentacentimetri; immagini sfuocate; colori sbiaditi di stampe d'antan; ostrega! Non ci vedo quasi più! Sto' vento della malora. Tristan è fermo. Brutto segno. Maoch alle mie spalle manticia più del sotto scritto; magra consolazione; Bordate di vento e nugoli di cristalli; meno venti; "Tristan che cazzo fai???", farfuglio. "What??"; ma sono convinto che abbia capito il concetto; "I'm not sure for the summit!" ("non sono sicuro sulla strada da seguire per la cima") mi rimanda. "Not there!" ("non da quella parte!"), faccio indicando il ripido pendio a sinistra "The ridge, the ridge on the right!!" ("la cresta, la cresta sulla destra!!"). Mi fa segno di si con la testa. Certo, la facile cresta che adduce alla cima. La relazione ce l'ho in testa parola per parola. E mio Dio, fa che sia facile veramente! E che non ci siano di mezzo refusi, dimenticanze o relatori troppo ganzi! Una slavinetta più consistente delle altre ci fa arrestare di botto. "Too dengerous for me! We have to leave the skis here!!" ("è troppo pericoloso secondo me! dobbiamo lasciare gli sci qua!!"). Lasciare gli sci? Insindacabilmente favorevole! Calziamo i ramponi e iniziamo la lenta processione nel medesimo ordine di salita con gli sci. Alzo la testa solo un attimo e di fronte vedo un lastrone a 45/50° di ghiaccio luccicante e verdastro. Saranno si e no venti metri con un saltino di due praticamente verticale. "E ades che fomm???" si materializza nella mia mente l'angusto interrogativo. Tristan non tentenna e con poderosi colpi di piccozza e ramponi salta letteralmente il muretto iniziale ed incomincia a risalire con metodicità il salto superiore. La corda si tende. Tocca a me. Non voglio pensarci troppo e ascolto una voce che da un passato da cascatista già abbastanza lontano mi sussurra all'orecchio ".il segreto sta nel fidarsi degli attrezzi!". E mi fido, eccome. Colpo di piccozza non troppo violento, se non ricordo male; caricare moderatamente l'attrezzo e scaricare sulle punte dei ramponi e via! Funziona! Ostrega funziona veramente. E siamo tutti già oltre. Non ho finito di rallegrarmene che Tristan attacca una cresta che a parere mio di facile non ha un tubo. Sarà inclinata a 40° gradi con sopra sessanta/settanta centimetri di polvere e sotto quello stesso ghiaccio vivo di cui sopra. "What's the matter???" ("come'è la storia???") urlo con voce roca a Tristan. E' già sulla cresta. "It's very exposed!!". Exposed?? Esposto, vuol dire esposto; hai capito bene. Nooo! Io odio i terreni esposti senza lo sputo di una sicura. E siamo in tre legati ad un'unica corda! Voglio un bel fix del 10, o almeno uno spit dell'8. Lo voglio qui davanti a me! Ma per quanto lo desideri non si materializza nessuna luccicante piastrina. La corda si tende. Salgo. La neve inaspettatamente tiene. Uno sguardo a sinistra. Un pendio di 200/300 metri a 60° con ghiaccio da freezer. Uno sguardo a destra. No meglio che non guardi né a sinistra né tantomeno a destra. Perché a sinistra c'è un baobao non indifferente. Ma quello a destra è proprio brutto, nero e sicuramente mangia pure i bambini!!. Tristan si mantiene esattamente sulla cresta. Tristanuccio mio perché c.... stai su sto filo d'Arianna invece che a sinistra? Se voliamo a sinistra forse ci salviamo. Ma se ci tuffiamo a destra arriviamo a Sass Fee in dieci secondi netti.
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Sandro durante la salita della lunga ferrata alla Domhütte.
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Metodo polacco contro i congelamenti...(assolutamente da evitarsi con stufa rovente.....Pinocchio docet....)
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Seracchi dell'Hobärggletcher
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Sandro nei pressi del Festijöch.
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Discesa del Festigletcher con la cima fra le nubi.
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L'infinito panorama di ghiacci che si gode dalla cima del Dom de Mischabel.
Saas Fee che è là in fondo, quattromila metri più giù, con le sue casettine tanto piccine che paiono finte.Ma Tristan si mantiene là dove dove salire. Dove glie lo dice la sua esperienza indubbiamente superiore alla mia. E lo seguo. Non c'è n'è più per nessuno. Sono io, questa piccozza che deve affondare ben bene, questi ramponi che grattano e questa lama nel cielo che prima o poi deve finire. Mi meraviglio di essere incredibilmente tranquillo, ho tutto sotto controllo forse perché il luogo dove stiamo è di indescrivibile fascino, di inaudita grandezza. Tale da prevaricare la paura e facilitare una profonda concentrazione. E' finita la cresta. Siamo su un calottone di ghiaccio azzurro. Si, adesso la vedo. Non è un miraggio. Ed è là. Ma non ci siamo ancora! La vetta è più in là. Ma questo è l'ultimo là! Faccio segno a Tristan che merita senz'altro di essere il primo a raggiungere l'esile croce al termine di un'altrettanto esile cresta di roccette. Parte e torna con sicurezza. Parto a mia volta e sono sicuramente più impacciato. Forse per l'emozione. Agguanto la croce. Balenga!! Ma possibile che anche la croce non sia bella solida, buona per farci un ancoraggio magari??? Sintesi di questa ascensione fra cielo e terra. Delicata instabile metafora di un'esperienza tesa nella breve distanza che separa la realizzazione del sogno dal suo infrangersi. Contro le nostre paure e contro la sublime incertezza della montagna.

Crescendo.....gerundio presente

Montagne Raccontate

Giugno, fine delle scuola ed inizio della sessione di esami. Dopo una primavera burrascosa, caratterizzata da un elevato numero di assenze motivate da una voglia di alpinismo irrefrenabile è giunta l'ora della resa dei conti. Professori in fronte all' Allievo! Non posso mancare all'appuntamento, dunque tra un tiro in falesia e l'altro trovo pure il tempo per studiare e correre, il tutto immancabilmente accompagnato da una voglia intensa di "lotta all'alpe" che sale esponenzialmente rendendomi nervoso e affamato.

La pioggia delle prime settimane di giugno altro non fa che accrescere in me il bisogno psicofisico di camini, diedri e placche.

Il classico contatto telefonico serale con il " mitico" Edo è diventato ormai uno sfogo per entrambi : "basta acqua , basta nuvole , a quando la via !? che via ? calcare o granito !?" un insieme di interrogativi apparentemente senza risposta.

Io continuo a scalare il pomeriggio in Falesia a Virle vecchia (posto nel quale si scala anche con leggera pioggia) e la sera ingaggiandomi con Present Perfect e Present Perfect Continuos mi domando: "ma nell'inferno di Dante pioveva in maniera costante come da noi ora?" su un libro intitolato "Granito" consumo le mie ultime energie serali.

Sabato 18 giugno finalmente finiscono gli esami e ritorna il Sole.

Mi trovo ancora in attesa dell'esito che arriverà il Lunedì seguente quando un messaggio intrigante mi giunge dal Mitico.

Montagne Raccontate

PINNACOLO DI MASLANA .. La via ? indovinala .

Corro a casa , apro il computer e cerco un sito che illustri le caratteristiche e le vie del posto in questione . Del Pinnacolo conosco poco , una relazione scritta da S. de Toni riguardo ad un misterioso Shampoo mi aveva incuriosito non poco , incuriosito e intimorito. Leggendo l'elenco delle vie mi cade l'occhio su un nome bizzarro : "20 anni di Sfiga".

Alessandro Gogna , Andrea Savonitto, Giovanni Rosti e Claudio Persico aprono nel 1982 suddetta via. Perfetto stile anni 80. Fessure, camini, poche protezioni e tanto "Pathos"; una esame che da buon Allievo devo sostenere.

Invio un messaggio ad Edo appena spento il Pc:
"Mitico .. senza dubbio 20 anni di Sfiga ".
Immediata fu la sua risposta:
"perfetta intesa Mitico... si parte lunedì mattina, ti aspetto domenica sera da Me.."


Montagne Raccontate

Il danno è fatto. Improvvisamente un pensiero mi martella il cervello, riuscirò a scalare con tranquillità pur non sapendo l'esito degli esami? La mia voglia e il mio orgoglio rispondono per me! Ma certo Allievo.

Domenica Sera, il lento treno mi permette come sempre di assaporare il "viaggio" pensare e riflettere su chi sono, dalle cuffie del mio mp3 esce un De Andrè che si mischia quasi in poesia ad un tramonto sull'Adami, ancora non so cosa per me diventerà quella montagna, quanto potrò crescere grazie a lei, in quel momento rimane un punto nero indefinito nell'orizzonte dei miei pensieri.

Arrivo a Edolo, una C3 mi recupera in stazione e come in ogni vigilia alpinistica io ed Edo ci dirigiamo da "Pio e Jonny". Pizza e birra affievoliscono ogni tensione e dubbio.

Il mitico , durante la cena, mi avverte che l'indomani il "ballo" sul Pinnacolo sarà a tre, a noi si aggiunge un amico comune, Oscar, forte scalatore camuno.

Un soprannome assai concreto fa di questo "amico" il pezzo di puzzle mancate al completamento del primo atto. Oscar detto " Il Pinza".

Domenica ore 6 ritrovo al solito Bar, colazione , benzina cambio vettura e nuovamente immersi nel viaggio. Che sia il viaggio e non il fine il fulcro del nostro giuoco?

Entriamo in terra Bergamasca, un clima perfetto ci accompagna nell'avvicinamento, prati e boschi soffocano il Pinnacolo, non ne permettono la sua contemplazione.

L'Allievo affamato di roccia non bada al sentiero, ma punta al Pinnacolo. Errata corrige Edo. Il Mitico mi consiglia di prestare attenzione non solo nella scalata ma anche nel contorno di questa. Fra una battuta e l'altra, il sentiero sempre meno pianeggiante ci porta a godere delle vista dell'obelisco di roccia sul quale ci "esibiremo" nel nostro personal spettacolo. Si erge dignitoso davanti a noi. Ci osserva .

Ci avviciniamo sempre di più , vicini a tal punto da non distinguerne più i salienti tratti .

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Si attacca. La via presenta nove lunghezze di corda, ne condurremo tre a testa. La sorte ne decide la sequenza . Oscar - Edo - Allievo .

Placca sensazionale iniziale, ogni singolo granello di roccia viene sensibilmente percepito dai nostri piedi, le mani si muovono come note in una sinfonia segreta, mi sento bene, in armonia con me stesso, scalo come piace a me!

I primi tre tiri sono un piacevole antipasto, goloso, altro non fa che innalzare la voglia di vedere e gustare la seguente portata .

È cosa strana, ma gradita, scalare a fianco del Mitico. Danza davvero bene, ottimo attore, su ottimo palcoscenico.

Oscar finisce il suo atto, tocca ora ad Edo condurre la cordata. I successivi tre tiri, seppur non difficili, si fanno giustamente meno disponibili nei nostri confronti, rendendoci in questo modo più concentrati ed ingaggiati .

Il sesto tiro, davvero interessante e particolare, superato con relativa facilità, mi gonfia un po' l'ego, non che sia male in una via come questa mi sussurro . Ti sbagli Allievo. Settima - Ottava - Nona lunghezza . Si apre il sipario. Parto deciso in un tiro divertente e non difficile, il quale mi catapulta in una nicchia erbosa, sopra la mia testa si erge il famoso camino parzialmente improteggibile. Recupero i due mie compagni, i quali, giunti in sosta alzando lo sguardo sghignazzano! Nel frattempo ricevo una telefonata da mio padre. Promosso. Essia. Esaltato parto. Un tiro interminabile con discreto attrito di corda mi porta ad una cengia, Eden per i miei occhi, la relazione parlava di cordino incastrato fra due sassi e così fu. Collego la sosta ad una pianta nelle vicinanze e con discreta goduria recupero i miei compagni . Sono Fiero di me ed esaltato. So però che il tiro chiave sarà l'ultimo, il prossimo. Camino, uscita speleo, fessura, placca e vetta .

La corda è dura, i miei compagni salgono godendosi il tiro, lungo intenso e profondamente spaziale. Arrivano entrambi, l'Oscar con il casco in semi caduta sopra la testa, sguardo da combat fiero di se, seguito da un Edo che innegabilmente nasconde un ghigno di soddisfazione. E' felice che il suo Allievo abbia superato la prova ed un poco triste poiché quel genere di lunghezze sono le sue predilette. Mi dicono unanimemente: "Complimenti al primo!"

Vada Allievo, mi sussurrano e mi sussurro....

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Parto per la lunghezza chiave. Da subito sbaglio impostazione, parto galvanizzato, troppo galvanizzato, ci tengo alla libera e in testa ho solo quel pensiero. Fatico assai per rinviare il primo chiodo, passo banale da me complicato oltre modo, rimonto sopra al camino e mi trovo alla base della lama - fessura. Riprendo fiato ed inserisco subito un friend. Sono affaticato, i piedi mi fanno male e nella mia testa aleggia il presentimento negativo che dovrò staffare.... la fretta mi ha spompato parecchio poco fa ed ora ne pagherò le conseguenze. Provo, non passo, scendo arrampicando per qualche passo, stessa sequenza per cinque ? Forse sei? Tentativi. Nulla .

Inserisco nuovamente un amico, lo utilizzo per una triste arrampicata artificiale che mi catapulta con un profondo senso di amarezza sullo spigolo finale. Cima.

Recupero i miei compagni che salgono senza particolari problemi in libera. Allievo perché? Perché hai salito in scioltezza il precedente tiro? perché hai complicato in modo esorbitante quest'ultimo, ben più banale? mi dicono e mi dico! Mentre gettiamo la prima doppia la mia cera parla da se. Deluso.

Rientriamo di corsa alla macchina, un lento treno che mi riporta in Brescia partirà fra circa un ora e noi siamo ancora sul Pinnacolo .

A Freddo: L'esperienza descritta è stata per me la scoperta di un orizzonte nuovo . Un orizzonte fondamentale. La mente. Il fisico, anche se allenato con precisione matematica, faticherà assai a lavorare al cento per cento senza l'ausilio della nostra cara amica mentis, la quale se ignorata sghignazzerà osservandoci!

Sceso dal Pinnacolo mi sono sentito maturato, ho imparato a mie spese che il troppo euforismo è un deficit ed ho imparato a controllare maggiormente i miei sentimenti sia postivi che negativi. Dopo quell'esperienza ho avuto grosse soddisfazioni su fronte psico-fisico in valli come Mello e Salarno.

Annovero quanto scritto nel grosso almanacco posto sul mio comodino con titolo "Iter senza fine"

Francesco. Allievo.

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Peppiniel

Il mio personalissimo ricordo di Beppe Chiaf

Amico Beppe, forse è troppo poco il tempo trascorso dalla tua partenza per questo ultimo lunghissimo viaggio (ti penserò in qualche aeroporto del mondo ad aspettare i sacconi stracarichi di materiale da scalata che si sono smarriti per lidi lontani), ma non riesco ancora bene a "metabolizzare" perché la tua vita si sia spezzata così tra gli elementi naturali che meglio conoscevi ed amavi. La neve e il ghiaccio sullo scivolo iniziale della via, la roccia in quel maledetto buco dopo la scivolata, dentro il buio fuori la luce con l'Anello ad aspettarti. Forse una roccia ti ha tradito là sotto, mi ripeto ancora forse.(quanti forse), quell'insieme minerale che nessuno di noi avrebbe mai pensato potuto arrivare a tanto dopo le migliaia e migliaia di volte che l'hai coccolata e nella tua etica mai maltratta e violata brutalmente, rispettata sempre. La fine forse è iniziata proprio dalla neve e dal ghiaccio più infidi del minerale puro, ma con i quali avevi una dimestichezza ed una conoscenza paragonabile a quella per il tuo mestiere e agli attrezzi del tuo lavoro nella vita di tutti i giorni. Magari una scarica piovuta dall'alto di tutti questi elementi messi insieme ti ha strappato da quelle due picozze rimaste lassù ammutolite, ma questo credo non lo sapremo mai. La luce e la vita fuori sul ghiacciaio ormai quasi piatto e tranquillo e un amico che aspettava sconvolto di poterti solo riabbracciare, in contrasto violento con il buio della crepaccia che ti ha inghiottito. Proprio il buio che avevi apprezzato in quegli anni sereni quando indossavi con noi speleo, tuta, casco ed acetilene e l'oscurità allora s'illuminava nelle esplorazioni sotterranee.
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Ricorderò con piacere immenso le innumerevoli volte che ci siamo legati insieme. E RICORDERO' ANCORA: la tua bocca aperta in un sorriso incredulo sotto la stupenda fessura rettilinea di oltre 40 metri su Watermelon Crack, a cui non credevi sino all'ultimo, pensando fosse una delle solite "bibbate", al Coster dell'Orso di Tredenus. Alla base del Caporal in Valle dell'Orco, quando insegnavi "al vecchio Bibo" come fasciarsi le mani con il tape e le mie successive imprecazioni perché comunque le fessure erano lo stesso dolorosissime per me, mentre tu salivi leggerissimo e supportato "dai tuoi braccioni" da idraulico e da una tecnica sopraffina per quelle stramaledette crepe. Sotto lo Scoglio di Boazzo dopo l'apertura dell'ennesima via nuova, quando eri seduto tra i miei tre bimbi e giocavi con loro, .ora diventati uomini. Il nome di quella nuova cascata a destra di Futura in Val Daone, l'Ultima Purificazione, scelto perché pochi giorni dopo avresti portato all'altare la tua Rossi. Sempre in Daone, quasi per caso e in allegra compagnia l'apertura dell'enorme candelone ghiacciato che porterà per sempre uno dei tuoi soprannomi, la Chandelle Peppiniel. La mia gioia nel rivedervi scendere dal Coster di sinistra della Val Salarno sotto il diluvio universale e la bufera dopo l'apertura della via dedicata al Seve, bagnati come due pulcini tu e il Pota. Padre e Padrone, una delle prime vie di misto moderno della Val Adamè, dedicata al primogenito del Luca Bord appena nato.

Un elenco di grandi momenti insieme che sarebbe troppo lungo mettere sulla carta, con la certezza però di aver avuto l'onore che all'inizio del tuo luminoso cammino alpinistico avevi salito alcune delle mie vie di arrampicata (Il Lupo. ed altre).

Testimoni del tuo buon seminato con i "gnari", sono soprattutto i giovani che ti piangono, li ho visti veramente smarriti ed increduli di non averti più dall'altro capo della corda. Ovviamente anche tu non eri un santo come tutti noi, ma ci mancherai all'infinito.

Un forte abbraccio a te Beppino e alla tua grande famiglia, da quel 16 Ottobre 2011 lassù potrete formare delle formidabili cordate ogni giorno, con Severangelo, Claudio, Giacomo.. e tanti altri.

Alberto Bibo Damioli

This is Patagonia?

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"Carina la barista e'? un bocconcino.. tu come sei messo a materiale da bivacco?". "Ho il sacco a pelo dell'Aconcagua, perche?". "Non va bene, pesa troppo...dovrai trovarti un sacco da bivacco. La prossima finestra di bello noi andiamo alla Affanasief al Fitz, può darsi che ti prendiamo dietro..ma lì bisogna tirare fuori le palle."

Siamo in un bar di El Chaltèn, Patagonia australe. Così, di fronte a una birra mentre guarda il fondoschiena della ragazza dietro al bancone Max mi arruola per la via più lunga del Fitz Roy.

Per qualche secondo sto zitto, non realizzo.il Fitz.solo qualche secondo: "Io ci sto! Spero di cavarmela, farò del mio meglio." "Bene, in questi giorni si fa boulder e prepariamo la roba, alla "ventana" (finestra) si và!"

E' circa un mese che vagabondo per l'Argentina, sono stato sull'Aconcagua e a Bariloche. Un viaggio dopo gli esami di maturità per pensare un po' a cosa fare nella vita, anche se finora non ho pensato a un tubo.

Qui a Chaltèn ho scalato un po' con un Argentino, (con non pochi problemi di comunicazione), poi ho incontrato Max e Hans Martin. Ci conosciamo poco ma questa è un' occasione che non voglio perdermi.

18 febbraio 2011: E' l'alba, si parte. Esco dal mio ostello con lo zaino e raggiungo l'abitazione di Max e Hans, ci attende un taxi che in mezz'ora di strada dissestata ci porta fino al ponte rosso dove parte il nostro sentiero. La marcia è lunga e faticosa: Piedra Del Fraile, Piedra Negra, Passo del Quadrado e giù per il ghiacciaio fino alla base della Supercanaleta. Sei ore di buon passo con zaini non proprio leggeri, l'attrezzatura comunque é ridotta al minimo: cibo per tre giorni, due corde, friend, dadi, un martello. Per risparmiare peso abbiamo solo le scarpe da trekking e dei ramponcini con le cinghie, più leggeri di così non potremmo essere.

Saliamo un primo nevaio, a una terrazza via le scarpe mizze e su le scarpette: sono le una e inizia la scalata. L'ordine della cordata rimarrà invariato per tutta la via: Max scala da primo, segue Hans e io per ultimo tolgo le protezioni.

Qualche tiro di media difficoltà, poi il tiro duro della giornata: 60 metri di fessure verticali e in parte friabili intasate di neve e verglass: Max sale bene cavando ghiaccio qua' e là a martellate, poi tocca a noi.

Faccio una fatica boia, la zaino mi tira giù e non mi fido dei piedi sempre nell'acqua. Se ci fossero più protezioni mi ci tirerei su volentieri; ma non ci sono.

Rapido giro del materiale e si riprende, proseguiamo sul filo della cresta per molti tiri non troppo duri e arriviamo verso sera alla cengia del primo bivacco.troviamo un gran masso piatto e allestiamo un muretto di riparo, un posto magnifico.

Super cenetta con minestra disidratata e ci godiamo un tramonto mozzafiato: il sole esalta il profilo dei funghi di ghiaccio sul Torre alla nostra sinistra e le ripide pareti della Guillamet e Marmoz a destra, il campo ghiacciato dello Hielo Patagonico Sur domina l'orizzonte.

In breve viene freddo, ci apprestiamo al bivacco: Max e Hans hanno un sacco a pelo modificato in due e le corde sotto il culo, io non ho trovato da comprare un sacco da bivacco e mi infilo in un grande sacco nero delle immondizie trovato al "mercado", ho un quadrato di gommapiuma e sono vestito con tutto quello che ho, le gambe nello zaino. Un po' emozionato penso ad alta voce: "Sapete che questo è il mio primo bivacco in parete", Hans mi guarda e si fa una risata (immagino anche per il mio aspetto da larva nerastra). con il suo simpatico accento tedesco mi fa: "il primo bivacco e lo fai sul Fitz Roy! Un vero lusso!"

La notte è infinita: ho un freddo cane e non riesco proprio a dormire, provo a godere della vista del cielo stellato ma non é che mi conforti granchè, anche perché non si concilia con il russare tipo motore due tempi di Hans.

Finalmente dopo una rapida colazione riprendiamo la scalata: per dieci tiri tutti dal 6a al 6c saliamo una bellissima placconata solcata da fessure: la roccia è ottima anche se i quarzi sulle placche "scrocchiano" sinistri sotto le scarpette. Chiodi non ce ne sono, solo qualche sosta.

Arriviamo sul filo di una cresta che si affaccia con un' esposizione da paura sulla Supercanaleta, ora ci aspettano dei tiri poco invitanti per una serie di diedri trasversali ingombri di blocchi "delicati".

Montagne Raccontate


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In breve Max attacca deciso il tiro più duro della via: un fessurone trasversale off-swit, friabile, farcito di ghiaccio e poco proteggibile: ci avverte che è tutto marcio e sale metodico la lunga fessura fino alla sosta. Tocca a noi, prima passa Hans, sul primo strapiombo dei rumorini della roccia mi preoccupano un po' ma non cade niente, poi parto: il passo è "boulderoso" e mi sembra di avere uno gnomo malefico appollaiato sullo zaino e intenzionato a tirarmi giù, bestemmio e incastro un braccio in una lama fuori dal tetto, tutto succede in un attimo: la lama si apre e mi ritrovo a pendolare appeso alla corda sopra la voragine della Supercanaleta, mentre una specie ti tavolino da biliardo di granito mi passa a mò di ghigliottina a poche spanne dalla corda... mi sento un idiota, l'ho rischiata grossa. In qualche maniera mi riprendo e salgo la fessura, sempre dura ma meno marcia, il materiale da recuperare è poco... un tiro davvero psicologico per il primo di cordata.

Segue un altro tiro difficile e bagnato dove mi strascino sul lungo traverso terrorizzato dall'idea di pendolare un'altra volta, uno pensa: Fitz Roy roccia stupenda, io invece qui continuo a prendere lame del c.o.

Poi le difficoltà calano, arriviamo ad una cengia. Sono le otto e ci resta solo mezz'ora di luce, decidiamo di bivaccare qua. Il posto è strettino, ma questa volta sono più stanco e riesco a dormire un paio d'ore. Alle prime luci si riparte, oggi dobbiamo uscire il prima possibile.

In breve raggiungiamo lo "zaino dei francesi" abbandonato in parete dai primi salitori e siamo sotto l'ultimo tiro duro. La linea non e' evidente e ci sbagliamo ma poi Max prende la fessura giusta, ora solo quinto grado fino in cima, dove arriviamo verso le una di una limpida giornata.

In cima ci sono un paio di cordate spagnole, pacche sulle spalle per tutti, qualche foto e giù per la Franco-Argentina, la discesa e' lunga.

Doppie non sempre comode con l'intralcio di qualche cordata che sale, traversi da paura dove bisogna far passare i rinvii e siamo alla Breccia degli Italiani, cominciamo ad essere stanchi e nervosi, è da tre giorni che siamo in ballo, ma si continua. Il canale è pieno di blocchi instabili e neve marcia; un gran postaccio, a metà delle doppie accade il fattaccio: circa centocinquanta metri sopra di noi cominciano a calarsi due tipi maldestri, noi siamo tutti attaccati ad una sosta quando sentiamo un urlo di avvertimento e il rumore della scarica. La reazione è istintiva, ci rannicchiamo tutti contro la roccia cercando di sparirvi dentro, faccio in tempo a vedere tre grossi blocchi che ci carambolano addosso.

Gran botti tutto attorno, odore di zolfo e un urlo fortissimo; è passata, penso che a urlare sia Hans invece mi giro e vedo Max appeso alla corda. Lo tiriamo in sosta, non si nuove, penso: "cazzo l'è mort!", invece con qualche scrollone si riprende, ha un forte dolore alla spalla sinistra.

In qualche maniera ordiniamo ai due che ci stanno sopra di non muoversi, nel frattempo si è fatta notte e ci mancano ancora 4 o 5 doppie.

La situazione non è per niente simpatica, su i frontalini, mi carico lo zaino di Max e inizio a scendere le altre doppie mentre Hans lo aiuta a calarsi: incalcolabili le mie bestemmie mentre cerco le soste in quel budello buio e marcio ma alla fine ci penzoliamo dall'enorme terminale e siamo sul ghiacciaio.

Non è ancora finita, anzi, dobbiamo ancora attraversare un lungo ghiacciaio tra ponti e crepacci e l'interminabile sentiero fino a Chaltèn. Max stringe i denti ma perde sangue dalla ferita ed è debilitato, siamo tutti stanchi e senza niente da bere e mangiare: dobbiamo scendere senza fermarci.

Come tre zombie barcollanti nella stupenda notte stellata ci trasciniamo a valle, impiegheremo più di dieci ore di marcia per arrivare finalmente alla stazione del pronto soccorso di Chaltèn.

Per la prima volta Max si spoglia e gli danno un occhiata alla ferita, è brutta, verrà trasferito d'urgenza all'ospedale di Calafate. Non mi reggo più in piedi, sono proprio alla frutta ma questa è la Patagonia, no? Prima di addormentarmi su una branda dell'ospedale per tredici ore filate guardo dalla finestra ed eccolo lì, il Fitz Roy è sempre lo stesso: bellissimo e selvaggio...forse sono io ad essere cambiato?

Aprile 2011
Francesco Salvaterra

Il volo della grola

Esplorazione nel Gruppo di Brenata - Prima salita del campanile Giac

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Saliamo sbuffando, dapprima nel fitto bosco, poi tra i mughi e coste erbose coperte di neve.

O meglio, arranchiamo, sotto il peso degli zaini carichi di materiale lungo l'erta traccia illuminata dalle luci frontali. Le scarpe da trekking mal si prestano a questo terreno, ma come speravamo la prima neve dell'anno è indurita dal gelo notturno e porta bene, faticheremo al ritorno ma almeno non dovremo tirarci dietro gli scarponi in parete.

Finalmente, dopo un'ora di buon cammino, schiarito dalle prime luci dell'alba vediamo il nostro obbiettivo.

Alle propaggini meridionali delle dolomiti di Brenta vi è un piccolo insieme di cime, il sottogruppo del Vallon: Cima della Finestra; Castello dei Camosci; cima Pradaiola; Cima Vallon, si tratta di luoghi pochissimo frequentati, molto impervi e assolutamente affascinanti. Tutta la zona è caratterizzata da un groviglio di creste e vallette secondarie popolate da branchi di camosci, piccole vedrette nevose poste all'ombra di imponenti pareti, dall'aspetto selvaggio e inaccessibile.

Pare purtroppo che l'aspetto della friabilità della roccia, unito alla severità dell'ambiente e degli avvicinamenti abbiano negli anni scoraggiato gli alpinisti, tanto che secondo la "bibbia" (ovvero la guida Buscaini) esiste in tutto il sottogruppo un unica scalata degna di nota. Si tratta di una via aperta nel 55'da Bepi Loss e Emilio Bonvecchio, su un elegante cuspide nella zona della Finestra, battezzata dai salitori "Campanile dei Boci".

Questa difficile salita, forse ancora irripetuta, ci ispirava molto, così durante l'estate un'escursione con gli amici alla Cima della Finestra è stata la scusa per un controllo: effettivamente lungo il sentiero si passa nei pressi di un bellissimo ed elegante campanile, (visibile dal parcheggio del rifugio Brenta guardando verso nord-est) che presenta verso sud un evidente successione di diedri che potrebbero rappresentare una logica anche se difficile via di salita. Rispetto alla breve relazione lasciata dai primi salitori (che morirono in un incidente alpinistico poco dopo lasciando pochissime informazioni) vi sono però delle notevoli incongruenze: dovrebbe esserci uno zoccolo di 100 metri di IV e a metà parete una cengia per aggirare il campanile, ma non ve ne è traccia. La linea comunque è allettante e vale la pena comunque di fare un tentativo.

30 Ottobre: L'estate è sfuggita ma io e il mio amico Stefano Bianchi decidiamo di tentare comunque, neve ce né poca e non fa troppo freddo.

-"Allora Stefano, cosa ne pensi?"- lui tace un po' e guarda il diedro giallo e strapiombante: -"Era meglio andare in falesia..."-, -"Va là falesia, taci e cammina!"- rispondo ridendo: sò che scherza, Stefano è in gamba e anche a lui piace "incrodarsi" di tanto in tanto.
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In pochi minuti siamo alla base del campanile, per una facile rampa di II° raggiungiamo un terrazzino sulla destra del camino iniziale, c'è un comodo mugo di sosta e decidiamo di partire da qui. Il tempo non è un granchè, coperto e abbastanza fresco, ci vestiamo e prepariamo i "ferri": abbiamo con noi friend, excentrix e una ventina di chiodi, alcuni dei quali artigianali.

Il primo tiro parte ingaggiato: con un esposto traverso a sinistra si entra nel camino giallo, inizialmente l'erba rende precari i passaggi ma presto si esaurisce all'aumentare di verticalità della roccia. Una stozzatura del camino mi crea qualche problema, avverto Stefano di stare all'occhio e "strusciandomi" a qualche modo riesco a passare "in opposizione". Un buon chiodo all'uscita e poco dopo raggiungo una nicchia riparata dai sassi che potrebbero cadere dopo...trovo una fessura e pianto due bei chiodi che entrano nella roccia di gusto.

E il primo tiro c'è, nell'ordine del V° (e sarà il più semplice) fin qui nessun segno di passaggio, forse come speravamo siamo i primi a passare.

Prima di Stefano mi raggiungono i suoi epiteti irripetibili rivolti allo zaino che lo incastra nel camino come un nut, alla fine si libera e mi lascia l'odiato fardello, scambiati i ferri parte lui.

Aspetto al freddo, intuendo la situazione dalle martellate che mi arrivano nitide, poi il richiamo:"Sosta, vieni". Lascio i chiodi e parto: supero un primo strapiombo aggrappandomi alla staffa lasciata gentilmente dal socio, segue una bellissima arrampicata su roccia sana e appigliata, uno strapiombino atletico e sono in sosta.

Segue un traverso a sinistra un po' più semplice, troviamo un altro buon punto di sosta e decidiamo di fare una pausa. La situazione è delicata: è già mezzogiorno e la progressione su un terreno sconosciuto, il freddo in sosta ma soprattutto la vista del diedro strapiombante che ci sta sopra ci rendono un po' indecisi, il tetto finale che sbarra il passaggio sembra proprio duro. Siamo quasi sul punto di mollare e lanciare la prima doppia quando un bel sole fa capolino dalle nuvole: l'ambiente subito migliora e basta a convincerci, facciamo almeno un tentativo! Parto deciso ma il primo strapiombo mi fa subito penare, la roccia è abbastanza friabile e mi dò una martellata sul pollice ( colorite imprecazioni) penso: se adesso volo torniamo indietro. Invece pian piano mi alzo, alternando passi di artificiale alla libera su roccia di migliore qualità arrivo ad una decina di metri dal tetto che sbarra il diedro, una provvidenziale fessura accetta due buoni chiodi, e per fortuna perché la sosta e praticamente appesa! Mentre recupero Stefano ho tempo per guardarmi attorno, il posto è davvero splendido: a est le creste dirupate del Castello dei Camosci sono bianche di neve e solcate da erti canalini, di fronte il sole sta calando verso il Carè Alto, all'orizzonte spicca la sua bellissima cresta sud-est. Le imprecazioni di Stefano mi riportano alla scalata: tentando di togliere un chiodo insicuro ha maciullato a martellate una fettuccia nuova. In breve mi raggiunge, lui è bravo in libera ma a tirare chiodi me la cavo meglio io quindi riparto da primo: il tetto è faticoso e un pò bagnato, provo con apprensione i friend prima di caricarli ma fortunatamente non mi salta in faccia niente e dopo varie contorsioni riesco a piantare un buon chiodo fuori dal bordo. Restano ancora una decina di metri in libera, sono piuttosto cotto e ad una considerevole distanza dal chiodo quando una "Grola" (un gracchio alpino) lancia un richiamo volteggiando a breve distanza dalla mia testa: è bellissimo ma per lo spavento quasi piombo giù!

Ancora qualche metro di convulsa progressione su mughi coperti di neve e sono in cima: lancio urli di sfogo mentre attrezzo la sosta su un bel mugo "Vieni vecio, siamo in cima!". Con qualche pendolo in breve Stefano mi raggiunge: pacche sulle spalle e previsioni di enormi birre una volta a valle. In cima lasciamo una scatola del caffè con un biglietto: "30 ottobre 2010 Stefano Bianchi e Francesco Salvaterra, prima salita del diedro sud". Un fischio ci richiama all'attenzione: alla nostra stessa quota, dai ripidi pendii rocciosi della parete opposta al campanile un grosso camoscio maschio ci stà lanciando dei richiami di sfida, forse si sta chiedendo cosa ci fanno quei due estranei su quel cocuzzolo che non è mai riuscito a raggiungere. Dopo esserci cambiati le scarpe in equilibrio sulla neve caliamo dal lato ovest una doppia estremamente aerea ancorata ad un mugo: tutta in strapiombo per 55 metri giusti, giusti per arrivare alla roccia e piantare due chiodi. La seconda doppia è più semplice e in breve siamo nel canale e allo zaino lasciato all'attacco. Nella discesa, tra vari scivoloni ci scambiamo le opinioni sulla salita: la nostra via, battezzata sul momento "Il volo della grola" ha uno sviluppo di circa 170 metri, la valutiamo di VI /A2, anche se ora con la roccia più pulita e qualche chiodo probabilmente sarà arrampicabile su difficoltà superiori. La roccia è stata una vera sorpresa: salvo un breve tratto giallo e friabile, "i rossi" e "i grigi" sono sanissimi e appigliati.

Siamo entrambi convinti che questo campanile non sia quello "dei Boci", per vari motivi: questo è più basso (circa 160mt contro i 250mt dichiarati sulla guida), inoltre non ci sono tracce ne alcun riscontro con la relazione dei primi salitori. Osservando bene ogni lato abbiamo valutato che la via da noi salita è probabilmente la più semplice della parete, la via "normale" per capirci, il campanile infatti ha una forma singolare: la base infatti è più stretta della vetta, di conseguenza ogni versante strapiomba e sembra inaccessibile con mezzi tradizionali. Nel corso di un altro sopralluogo, più a ovest verso malga Movlina abbiamo individuato un imponente torrione, più alto e tozzo, che presenta uno spettacolare spigolo, dalle descrizioni potrebbe essere lui il misterioso campanile.la ricerca della via di Loss e Bonvecchio sarà una sfida per il prossimo anno!

Tenuto conto di ciò siamo quindi convinti di avere salito in prima assoluta questo bel campanile, e abbiamo deciso di chiamarlo Campanile Giac, dedicandolo a Fabio Giacomelli, (Giac era il suo soprannome) forte alpinista Trentino morto nel 2009 sul Cerro Torre. Noi non conoscevamo Fabio se non di fama, ma per la sua grande passione per queste montagne abbiamo pensato che poteva essere una buona idea dedicargli una piccola elevazione del suo amato Brenta.

Questa è stata per noi una piccola avventura che ricorderemo per sempre, aprire una via tutta nostra, e senza saperlo essere i primi a salire sulla cima di un elegante guglia, non in karakorum, ma nel famoso e frequentato gruppo di Brenta, è una soddisfazione non da poco.

Perché c'è ancora molto da esplorare, l'avventura, di cui tanto si parla, non si trova necessariamente su enormi pareti all'altro capo del mondo, o su vie famose super-attrezzate, ne tantomeno sulla carta patinata di qualche rivista: l'avventura è dietro l'angolo, basta andarsela a cercare.

Francesco Salvaterra 2010

Che senso ha

Riflessioni sul "Cinema di Dio" di Alberto Melgrati

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Gli alpinisti non sono uomini normali. Gli uomini normali, soprattutto quando un alpinista muore o si fa male, si schierano compatti a mo' di platea a domandarsi: perché l'ha fatto? Che senso ha? Sorpresa, sconcerto, disapprovazione plateale: tutti d'accordo a giudicare senza appelli. Come se sapessero in cuor loro che gli alpinisti non se lo chiedono mai e sostanzialmente sono degli irresponsabili egoisti.

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In verità gli alpinisti sono diversi proprio per il motivo opposto: un alpinista si chiede 'che senso ha?' molto, ma molto più spesso di un uomo normale. Se lo chiede costantemente: ogni settimana mentre sogna le spedizioni future, il giorno che precede l'attacco, la notte mentre spinge sé stesso fuori dal bivacco, gli istanti di disperazione davanti al passaggio chiave, e via dicendo. Gli uomini normali in fondo hanno bisogno proprio degli alpinisti, delle loro conquiste inutili e ancora di più dei loro incidenti spettacolari, per tornare a chiedersi ogni tanto: 'ma che senso ha?'

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In merito alle risposte, ogni alpinista ha le sue approssimazioni, io ho le mie e posso parlare di queste. Dato che si tratta di 'cose ultime', . non si parla di etica della montagna o di differenze tra plaisir e professionismo; non c'è modo di appoggiarsi a scuole di pensiero. Nemmeno i 'grandi' aiutano granché, alzi la mano chi è si sente più a posto perché ha letto e riletto le filosofie dei Buhl dei Bonatti dei Messner del Nuovo Mattino . Io no. Lo sgomento abissale che a volte assale chiunque vada in montagna con il 'tarlo dell'alpinista' non si placa con nessuno yoga. Le parole di altri 'insensati' possono al limite confondere lo stato di cose.

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Bisogna rimanere ancorati al fondo e prima di tutte le istituzioni create intorno alla montagna: i club alpini, l'epoca d'oro, l'hymalaismo, il culto dei Defunti Prematuri, i comportamenti sostenibili, la tecnologia invadente, l'adeguata preparazione, i libri 'necessari', compreso quello di vetta: e un immancabile set di friend da 400 euro, altrimenti saranno lì a commentare sopra il tuo corpo stecchito alla base della parete: 'Che senso aveva?'.

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Chiedo a un istruttore CAI: che differenza c'è tra un camminatore cocciuto che in solitaria raggiunge il Mont Avril in Val di Ollomont o il Finailspitze da Vent evitando rifugi e bivacchi, e un collezionista perfettamente equipaggiato che si mette in coda con la sua cordata per arrivare in vetta al Breithorn o al Gran Paradiso? La risposta è: il primo non usa la tecnica, il secondo si quindi il secondo è un alpinista. Qualche differenza oggettiva la si deve pur mettere. Corretto, in un certo senso non ci sono risposte alternative valide per poter regolare il traffico. Ma pur sempre deludente.

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Uscendo da queste pur necessarie categorie, è più facile cominciare a dire cosa non c'entra - o c'entra poco - con l'alpinismo. Innanzitutto, non siamo degli 'sportivi' e non siamo degli 'estremisti', non sottovalutateci. Non siamo un'alternativa al bungee jumping o al windsurf, con tutto il rispetto per queste attività motorie. A chi mi dice che questo venerdì viene ad arrampicare mentre martedì non può perché sta facendo un corso di arti marziali, e poi sabato prossimo c'è la partita a tennis . non lo invito più, se ne vada a continuare la serie altrove. E se mi fanno notare che questo mondo è pieno di blogger-climber che discettano con sufficienza di una loro via di sesto percorsa con le muffole alle mani e i pattini ai piedi, a un settimo del tempo scritto in relazione, rispondo che nemmeno questi sono propriamente alpinisti. L'alpinista non ha problemi di comunicazione col mondo, è soddisfatto delle dimensioni del proprio pene, ha ottime relazioni con sua madre e spesso riesce anche ad avere degli affetti normali. (So che quest'ultimo punto è un po' discutibile ma sono disponibile a ridurre l'ampiezza del gruppo.)

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Se dovessi invece cominciare ad 'affermare' qualcosa, partirei dai rifugi. Il Rifugio di nome e di fatto. Il luogo al riparo in una periferia del cosmo, l'aria siderale intorno. I nidi sul cucuzzolo; il Nuvolao, il Comino, il Parravicini: ognuno ha la sua lista. Qui ci si avvicina a qualcosa di profondamente sensato. Il sogno infantile di fare l'astronauta. Un riparo proiettato in mezzo al tutto o al nulla disumano, ovvero che sta propriamente fuori dalla nostra umanità. Fiondati a forza di gambe e con i nervi sovra-sollecitati, su un fragilissimo punto di osservazione divina, a 360° sopra la Terra. All'alba, nel momento in cui il sole comincia a battezzare le cime per ordine di altezza, l'alpinista 'vive' quello che nessuna Piazza San Marco, nessuna Mona Lisa, nessuna cultura umana può restituire: il cinema di Dio, come sta scritto correttamente in un manuale americano. Succede all'alba ma può succedere anche prima e anche dopo. L'alpinista non assiste misticamente, ma ci si muove dentro, nel tempo che scorre, con il terrore e la fatica che accompagnano queste visioni abissali: se atterraste all'alba sullo stesso plateau ghiacciato ma con l'elicottero anziché con le vostre gambe e la vostra voglia matta, non vedreste nulla di nulla.

Giocare a carte o raccontarsi storie umane dentro una tenda o in una truna, mentre appena fuori dalla cerniera a zip ci sono il Granito e il Ghiaccio, il Buio e il Vuoto, la Violenza e la Bellezza. La loro invadenza è tale che spesso non si riesce a giocare né a pensare né a fare qualsiasi cosa di umano. L'uomo è come schiacciato e si trova costretto all'essenziale: respirare e contare le forze collettive. La cordata - il topos della relazione tra uomini-alpinisti - è un affidamento obbligato della propria vita alle mani e al buon senso dell'Altro. E - oltre a ciò - la strada percorsa insieme si dipana col pensiero fisso e quasi amicale della morte. Non ci sono condizioni più essenziali e alte per obbligare l'uomo ad amare la propria vita e il proprio tempo che sfugge. 'Rinuncia oggi, tanto le montagne restano lì': sì, ma io non resto qui a lungo.

Ce n'è abbastanza per giustificare non solo il senso ma anche l'ossessione, e anche un po' lo spaesamento latente che ci assale mentre quel giorno, in un consesso di umani normali che discutono del Più e del Meno, noi leviamo per l'ennesima volta gli occhi in su per cercare di capire che tempo farà domani, come si chiama quella cima, come ci si potrà salire .

Alberto Melgrati - febbraio 2012

Il Castello di Gandalf

Esplorazione in Adamello nell'a.d. 2015

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E capita di percorrere stupiti da tanta maestria l'ungulatico sentiero che adorna una stretta cresta sormontata da splendidi esemplari di larici secolari che ben difficilmente vedranno mai i denti di una motosega. Per poi perderci fra i terribilmente rigogliosi tentacoli di un bosco di ontani. Fino ad affacciarci alla parete che avevamo posto al centro delle nostre attenzioni e dei nostri desideri e scoprirla quasi irraggiungibile sempre causa la selva di ramaglie che ci si para d'innanzi. Ok; per oggi visto gli orsacchiotti da 25 kg che ci tiriamo appresso (anche se la sensazione è quella che siano ogni tanto loro a portarci in giro visto quanto ci sballottano ..), credo possa bastare. Ritorniamo sulla cresta e l'occhio del Maestro, indubbiamente più raptico del mio quando si tratta di nuove linee, cade su una bella cima dall'altra parte della valle rispetto a dove siamo.. E le certezze progressivamente picconate e fattesi calcinacci giusto mezz'ora prima paiono ricostituirsi quasi d'incanto divenendo nuovamente granitiche cariatidi (ciumbia.)! L'animo dello scalatore di apertura è proprio mutevole come un mattutino refolo lacustre. Giù dalla cresta, su per la valle; con gli orsacchiotti appollaiati sulle nostre spalle che incominciano ad affondare gli artigli. Ore 12.00. Dopo aver girovagato indicativamente dalle ore 7.30, siamo finalmente sotto una vera parete. La roccia pare buona, la linea identificata interessante..mah..si vedrà.
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Scendiamo il più velocemente possibile cercando di rintracciare gli ometti lasciati all'andata prima che arrivi notte visto che qui i sentieri incominciano ad essere un ricordo lontano e vago; poi le strisce alluminizzate lasciate sugli ontani ci evitano, almeno in parte, girovagazioni da ubriachi complici le fluttuanti luci delle pile frontali. Finalmente imbrocchiamo il sentiero che ci riporterà a valle, qui più marcato ma sempre ostico per le pietre bagnate e l'erba alta che obbliga ad atti di fiducia pedestre finché l'ennesimo non si traduce per me in una scivolata che si conclude con un bel risentimento alla coscia destra. Richiamo a suon di bestemmioni il compare che come solito macina la discesa quasi stesse scendendo le scale di casa a mezzogiorno cercando di convincerlo che se continueremo a rotolare così fino a valle ci arriverò sulle ginocchia. Poi finalmente ne usciamo dall'ostico bosco popolato da stridii rantolii e grida (streghe sicuramente, che qui pullulano); anche se troppo concentrato a non ruzzolare ogni tre passi per ascoltarli troppo. E luce fu. Ma che luce è?? Il rifugista del Premassone ci aspetta davanti a Malga Frino; era al corrente della nostra fuga nel selvatico mondo del Canale di Fossale ma non ci aveva scorto per tutto il giorno sulla parete inaccessa prescelta e ben visibile dal rifugio e rivelatasi per noi inaccessibile! E ci dà un iper gradito strappo mezzo Panda 4x4 (vecchio modello; il mito racchiuso in 4 lamiere) fino al suo prezioso e curatissimo ostello affinché noi si possa finire una giornata della nostre di fronte ad un fantasmagorico piatto di pizzoccheri con formaggio di malga + gnocchi alle erbette + eccellente birra alemanna di cui non ricordo il nome ma solo il sapore aspro e dolce ed il profumo d'erba falciata.

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Val Malga, Canale di Fossale e Circolo del Marser; apertura della "Il Castello di Gandalf" all'Anticima N-O del Monte Marser o Pala del Ferro
20 settembre 2015

La falesia di Lodrino "Francesco Cancarini"

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Per essere giù dal letto, sono giù. Ora devo solo alzarmi dal pavimento. Il telefono continua a suonare: "Pinto, devi scrivere due righe introduttive sulla Falesia. E devi farlo entro giovedì 3 Dicembre!". Alessio, il mio amico di sempre, ha ragione nel tenermi pressato ed impormi questo obiettivo, altrimenti io, da buon "furgonauta", applicherò l'unica regola che questo caotico gruppo di rocciatori conosce e segue con spiritica dedizione: climb now, work later! Anno 2014: L'unione euroscettica, il referendum in Scozia, 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, negli USA esplode la rabbia "nera", ed io iniziavo a muovere i primi passi verticali sul calcare della Presolana. Con me Francesco Cancarini. La mia prima via in ambiente, "Echi Verticali" tutta da secondo di cordata. Mutande sgommate dalla paura del vuoto e crampi agli avambracci dati da un eccessivo sforzo fisico nel tirare uno dopo l'altro tutti i rinvii che il mio amico Cesco agganciava in successione alle piastrine inox, danzando già allora elegantemente sulla roccia grigia a picco su Baita Cassinelli.

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I grandi amori si annunciano in modo preciso. E così da quel giorno l'arrampicata è entrata a far parte della mia vita e, oltre a serrare tacche, legare nodi, santificare le feste tentando vie fuori dalla mia portata, ho stretto alcune delle più importanti amicizie di sempre. Quel tipo di connessione che si crea quando ci si lega con altri amici-scalatori per affrontare delle emozionanti avventure arrampicatorie che ti restano per sempre nella testa, ma soprattutto nel cuore. Questo è il feeling che si è creato nel gruppo dei "furgonauti".

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Furgonauti, fur-go-nau-ti, aggettivo maschile o femminile, strampalato gruppo di amici uniti per la passione della montagna in tutte le sue discipline, estive ed invernali. Mossi dalle 4 ruote di furgoni camperizzati, a zonzo per l'Italia e l'Europa alla scoperta non solo di siti arrampicatori ma anche di zone di mare sconosciute e rigorosamente selvagge di meritevole bellezza. Di base in questo gruppo c'è l'eterna incognita di dove andare e di quale sarà la meta dell'indomani. E' capitato di partire per Cogne in pieno inverno e ritrovarsi a sfalesiare in Spagna! L'arrampicata è l'unico sport che tende al cielo. Per questo è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre a terra. Per me e per gli altri la meta è sempre stata il posto lontano ed irraggiungibile. Da El Capitan a Ben Nevis. Dalle fessure del Bianco alle discese nella powder del Rosa. Dalle gole del Verdon ai massi di Fontainebleau. Negli ultimi tempi si stava focalizzando nella mia testa un obiettivo assai più ardito. Un livello di grado superiore. Una vera lotta con l'alpe! Ovvero scalare i 120 metri delle pareti che si ergono dietro casa, distanti si e no 40 minuti di cammino dal parcheggio. Esposte a sud e con nessun interesse alpinistico! Dopo un'attenta ricerca scopro che in loco ci sono già alcune linee che salgono la parete sud della Corna di Caspai (famosa per l'omonima ferrata). In particolare la mia attenzione si sofferma su un tentativo di Giancarlo Bertussi e Andrea Reboldi abbandonato alla sosta del primo tiro. Senza porci alcun dubbio del perché due climbers del calibro di Bertussi e Reboldi si siano ritirati e dopo aver chiesto la loro benedizione, iniziamo la nostra avventura alla sud della Caspai ripercorrendo il loro tentativo. Da subito capiamo che l'ascensione sarebbe stata oltre le nostre capacità e che, per progredire con un Milwaukee da 6kg, avremmo dovuto scendere a compromessi con l'etica prescelta per l'apertura, costringendoci a dover fermarci sui cliff per forare e piazzare i fix inox da 10 x 90mm. Nonostante ciò, 4 itinerari di arrampicata a carattere prettamente sportivo ma severo nascono sulla soleggiata parete. Altre idee e nuove linee ipotetiche si disegnano nelle nostre menti ma, la lentezza della progressione, le difficoltà elevate e l'avvicinamento non proprio agevole con zaini da apertura, ci ha fatto abbandonare il cantiere per un pò di tempo. La gioia e la vivacità di questo bel gruppo si è mischiata a risultati di tutto rispetto che alcuni dei "furgonauti" di punta hanno aggiunto al curriculum: Eiger, Jorasses e Cervino scalate per le pareti in ombra, due nuove vie in Perù e decine di ripetizioni in nord America sono alcune delle conquiste che abbiamo festeggiato tutti insieme più e più volte, al rifugio Cai Valtrompia dal buon Fabri. Avventure e leggende amplificate dalla frizzantezza di una buona birra fresca dopo una pellata in cima al Guglielmo. Poi di colpo, in un pomeriggio di dicembre, il giorno 3 per l'esattezza, una visita inaspettata

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Alessio e Matteo ti vengono a trovare in azienda. Ore 14, buontemponi state andando a scalare?! Io non posso, devo lavorare! Ma loro non ridono come fanno di solito. Occhi bassi. Piumino viola a toppe blu l'uno, piumino giallo toppe nere l'altro. Ciabatte di cuoio entrambi, sempre le solite. Non ridono ancora. Perché non ridete stronzi buontemponi che state andando in falesia a scalare?!?! Il Francesco è caduto. Su al Tonale. Saliva da solo "Mafia Bianca". Non chiedo dettagli, non servono. Un abbraccio e un saluto. Loro vanno, io resto lì. Solo. Come un pezzo di ghiaccio che ti sbatte in faccia mentre scali una cascata gelata, chiudi gli occhi e aspetti che il male si faccia strada, senza far niente perché non puoi mollare la presa dalle picche. Per tutto l'inverno e la primavera successiva all'incidente, salvo qualche gita con le pelli, non abbiamo concluso molto.

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I "furgonauti" non sono allenati per superare questi dislivelli della vita. Arriva così l'estate 2019, gli animi si distendono e si ricomincia a scalare al caldo. Nel frattempo, sui social vengo a conoscenza che diversi appassionati di montagna, amici di Cesco sparsi tra Lombardia e Trentino, esprimono a modo loro un ricordo dell'amico scomparso. Nasce una nuova via sui Monticelli, un nuovo settore nella falesia di Caionvico, una falesia di dry in Vallesinella. E noi che siamo stati i suoi amici più intimi non potevamo rimanere inattivi! Nessun sogno è troppo grande, nessun sognatore è troppo piccolo per poter sognare e tra noi furgonauti, persone sognanti, c'è chi fantastica sulle cime più alte della Patagonia, chi sulle valli più sperdute in Alaska, il giro del mondo, l'Everest, la Luna, Marte! Ma il chiodo-da-roccia fisso, da sempre, per tutti noi, è quello di chiodare una falesia da condividere con pochi eletti. Volevamo la nostra piccola Cornalba, palestra di roccia esclusiva dove poter allenarci in santa pace e diventare i "locals" gelosi del nostro pezzo di roccia. Un vero e proprio secret-spot come appunto Cornalba ai tempi di Bruno Tassi.

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Iniziamo a scandagliare tutta l'alta Val Trompia, passando dalle pareti in terreni privati di immancabili proprietari malmostosi a pinnacoli rocciosi che si reggono in piedi per miracolo. Fino a che, Alessio, individua a Lodrino, proprio nel mio comune, una fascia rocciosa di qualità eccellente con un fronte di 80/100 metri e di altezza sufficiente per scaldare i nostri cuori e mettere in carica le batterie dei nostri tassellatori. Certo che, farsi sottrarre da sotto al naso una parete così estetica nel "mio" territorio da "un basaröl" è proprio cosa da non credere (Brozzo, paesino con 100 abitanti e 2 capre, dista da Lodrino, paesino con 101 abitanti e 3 capre, 9 tornanti e ben 300m di dislivello. Quindi nella bassa più nebbiosa. N.D.R.). Con un gran lavoro di squadra fatto di sali e scendi dalle fisse, dita schiacciate, spazzoloni consumati e grasse risate, aiutati da amici, mogli, fidanzate e fratelli, soprattutto fratelli, il team furgo+resto del mondo ha attrezzato ad oggi 22 linee di salita. Interamente chiodate con materiale inox certificato, il tutto autofinanziato dalle stesse persone che hanno dedicato tanti sabati, tante domeniche e serate fino a ben oltre il tramonto. Il risultato è una palestra di arrampicata su roccia ottima, il livello della gradazione è severa ma la chiodatura è, a dir nostro, piacevole e non lascia posto ad inutili patemi d'animo privilegiando il gesto atletico ed il divertimento. I "furgonauti", persone dall'animo sincero e generoso hanno deciso di dedicare la falesia a Francesco Cancarini come perenne ricordo dell'amico che li ha lasciati troppo presto e che tanto li avrebbe deliziati nel vederlo salire senza apparente fatica quei tiri di roccia calcarea che i suoi amici hanno attrezzato riservando un pensiero speciale all'aspirante guida alpina. P.S. Durante i lavori alla falesia oltre a ridere, scalare, scherzare e far cadere trapani al suolo, abbiamo anche avuto dei momenti di scontro! Chi scrive, ha dovuto scontrarsi con i propri amici quando la scelta dei nomi da associare alle via ha iniziato a degenerare a tal punto da essere più simile al menù principale di Brazzers piuttosto che un sito di arrampicata sportiva. Questa mia scherzosa indignazione nasceva dal fatto che da lì a poco sarei diventato padre e volando con la fantasia mi immaginavo già di trovarmi alla base della parete tra 10 anni a dover spiegare a mio figlio il significato di alcuni nomi associati alle vie. E a quel punto mi direte voi quali stratagemmi inventare per raccontare a mio figlio Francesco la storia della nostra falesia!

Andrea Pintossi

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Atlantica

Sotto un cielo rorido di stelle

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La valle dell'Adamè è forse la valle più propriamente "adamellica" del massiccio; la sua ariosità e grandiosità paiono trasmettere a chi ne percorra il piatto fondovalle cesellato dal placido Poia d'Adamè quel sentore di infinito ed immensità che è la caratteristica saliente e più facilmente avvertibile del gigante retico. Man mano si procede per i quasi 10 km del suo considerevole sviluppo, questa sensazione si fa sempre più marcata fino a quando, toccando il cuore del grande solco, si giunge al cospetto della grandiosa triade Corno Meridionale dell'Adamè - Corno dell'Adamè - Antecima del Monte Fumo. La presenza di nevai perenni, il colore della roccia che va dal grigio scuro tipico della tonalite al rosso fuoco sino alle tonalità argentee delle belle pareti delle Punte delle Levade, il superbo pianoro erboso del Pantano dell'Adamè con in sui bizzarri giganti di pietra rilasciati nel corso dei secoli dal vicino ghiacciaio che fa capolino con tutti i colori dell'azzurro; i corsi d'acqua talvolta trasparente, talvolta d'indaco per la sabbia discioltavi; tutto contribuisce alla gioia degli occhi e del cuore. Qui siamo in uno degli angoli magici dell'Adamello. E la malia la si avverte sotto pelle come una leggera brezza elettrica che si aggiunge talvolta ai refoli gelati che rotolano dal vicino piano infinito qui invisibile ma chiaramente avvertibile.

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E' alla testata della valle che nell'estate del 2010 con gli amici Gianni Tomasoni e Waler Visinoni abbiamo deciso di tracciare una nuova via sulla più evidente struttura della zona: la grande e complessa parete Sud del Corno dell'Adamè.

Questa parete, attraversata da grandi fasce orizzontali di strapiombi (una vera eccezione in Adamello dove la struttura predominante è la placca più o meno abbattuta, più o meno liscia; non certo gli strapiombi che sono una struttura propriamente dolomitica!) si pone subito all'attenzione dell'osservatore; alta quasi 800 metri termina con una curiosa serie di cuspidi e torri che fanno somigliare la montagna, grazie anche al colore della roccia mai troppo scuro, ad un gigantesca cattedrale gotica.

Si rimane abbastanza stupiti vedendola nell'apprendere che questa parete risulta salita per una via tutto sommato facile più di 50 anni fa; una via che non supera il IV grado anche se lunghezza, impegno complessivo ed isolamento dei luoghi non devono farla certo ritenere una scampagnata. Anche il rientro per il ghiacciaio e per l'interminabile valle non è cosa da sottovalutare.

Comunque il nostro intento era tracciare un nuovo itinerario che cercasse di salire il più centralmente possibile la parete là dove l'itinerario classico di fatto ne percorreva quella sorta di spigolone che la delimita a destra. Questo senza impattare nelle grandi fasce centrali di tetti che avrebbero quasi certamente obbligato ad artificializzare.

In quattro giorni di salita compresi i lunghi avvicinamenti e con un bivacco in parete programmato (un'esperienza onirica sotto un cielo tappezzato di stelle.) è nata "Atlantica"; il nome vuole essere un tributo alla grandiosità dei luoghi e all'appartenenza ad un mondo totalmente altro che lassù si fa sintesi fisica ed emozionale come sa concedere ogni grande parete che si rispetti.

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22/07/2010
Fervono i preparativi; in cantina sul tavolo che utilizzo per preparare le mie escursioni vi è una montagna di roba; stento a credere che dovrò sobbarcarmela per ore e ore. Preferisco non pensarci; mi pare di sentire le rotule scricchiolare! La via andrò ad aprirla con Gianni Tomasoni ed un suo amico; Gianni è uno dei più prolifici apritori orobici di vie moderne; recentemente ha "scoperto" l'Adamello dove ha tracciato alcuni bellissimi itinerari. Conosco Gianni solo via Internet! Mai fatto nulla assieme. Abbiamo ripetuto ognuno delle nuove vie dell'altro. Tutto qui. La nostra prima via in compagnia sarà la nostra più lunga apertura per entrambi! Miracoli del web! L'amico di Gianni, Walter, che ovviamente parimenti non conosco, è alla sua prima esperienza di apertura e si candida come portatore; ruolo che implica modestia e sacrificio ma che in salite come queste è a dir poco determinante. A me e Gianni toccherà salire da primi avendo il privilegio di progredire su terreno sconosciuto; esperienza di una intensità struggente e dal fascino tremendo divenuta nel corso degli anni per entrambi una sorta di sostanza allucinogena di cui è impossibile privarsi nella bella stagione; istinto creativo, senso del mistero, gioia della novità, tensione talvolta esasperata e lancinante verso ciò che si riesce solo ad intuire e che apprendiamo centimetro dopo centimetro, arrancando oltre le nostre paure, talvolta vincendole, talvolta subendole, talvolta soccombendo ad esse; ma solo temporaneamente perché ciò che alla fine ci fa muovere è il senso della scoperta che ciascun uomo cela dentro di se; quel senso che si può manifestare in mille modi negli affetti, nel lavoro, nello studio, nella scienza. Aprire una via su una parete è solo una manifestazione di quella tensione che da sempre ci muove verso ciò che ci è sconosciuto e che ci ha fatto uscire da un caverna umida e male illuminata a sfidare la bellezza e la pericolosità del mondo qualche milione di anni fa.

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24/07/2010.
Ore 3.30. La sveglia suona ma anche se non avesse suonato è tanta l'adrenalina che ho già in circolo che chiudere occhio è stato impossibile nonostante abbia letto fino all'1.00. Schizzo in macchina (già stra-carica) e mi fiondo in valle Camonica.
Ore 5.00. Malga Lincino, alta Val Saviore; sono puntuale come uno svizzero e facendo l'ultimo tornante noto un furgone sulla sinistra con un tale che si allaccia gli scarponi; vado a girarmi poco oltre e parcheggio dietro il furgone. "Oilà, si va per la Sud del Corno dell'Adamè??". Chi mi risponde è un omone sul metro e novanta e passa con due spalle così; Walter! E dovè il capo spedizione?? Dalla strada scende trotterellando il medesimo. Così finalmente conosco Gianni; chissà perché me lo ero immaginato alto e magro; invece è sul metro e sessantacinque e largo di spalle; ha un casco di riccioli lunghi e neri come il carbone per i quali, proto calvo quale sono, provo una certa invidia. Gianni ha 52 anni ma se non lo sapessi glie ne darei 40 al massimo. Va bè, miracoli delle capigliature abbondanti! Si caricano gli zaini; abbiamo programmato un bivacco all'aperto; siamo carichi da paura; almeno 28-30 kg a testa. Meglio non pensarci.
Ore 10.00. Abbiamo attaccato nel punto più basso della parete nei pressi di un comodo terrazzo; fa un freddo non da poco e ho sbagliato abbigliamento per questo primo giorno; sono troppo leggero e barbello tutto il santo giorno senza mai riuscire a scaldarmi; oggi apre Gianni; meglio va là; il livello di humor eroicus oggi è al lumicino. Speriamo meglio domani.
Ore 18.30. Nonostante si sia girato un'ora attorno al nostro grande macigno in cui si era programmato di pernottare, io e Walter siamo sempre più perplessi; il fondo dell'antro formato dal gigantesco lastrone è a dir poco sconnesso e di materiale minuto per appianare il terreno vicino non ce n'è. Certo, davanti al lastrone vi è una sorta di vasto balcone in cui potremmo stare comodamente sdraiati tutti e tre; ma la serata è perfettamente allineata, quanto a temperature, alla giornata: maledettamente gelida! Ed il forte vento che soffia da nord mette in preventivo una notte di quelle lunghe e sofferte! Nonostante il Gianni abbia già sistemato una sbilenca amaca (ma come fanno i messicani poi a dormirci in 'sti bozzoli!!) a maggioranza si decide saggiamente per un ripiego al vicino e ben visibile Ceco Baroni.
Ore 20.00. Siamo al bivacco Ceco Baroni, minuscolo ma apprezzatissimo nido d'aquila sospeso sull'interminabile valle che da qui appare in tutta la sua grandiosità. Bellissima serata in compagnia allietata da una buona bottiglia di Barbera! Portare il nettare divino sin qui costa sempre fatica ma ne vale assolutamente la pena!

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25/07/2010.
Oggi è una giornata magnifica come ieri del resto ma meno fredda fortunatamente; vista l'esperienza ibernizzante di ieri sono vestito di tutto punto e l'aria frizzante dei 3000 adamellini è qualcosa che apprezzo più che patire; il sole fa la sua parte anche se le mani sembrano non accorgersene molto! Dopo un paio di lunghezze su una magnifica placca che Gianni supera con uso parsimonioso di ancoraggi e che si rivelerà il tratto chiave della via, passo a condurre e dopo una facile lunghezza con roccia molto frazionata mi ritrovo impegnato in una fessura obliqua che mi da del filo da torcere; perdo non poco tempo e quando siamo di nuovo riuniti il tempo sta ormai cambiando; continuo per una bellissima placca non troppo difficile ma giunto ad una cengia sistemo un ancoraggio e mi faccio calare; e poi giù per veloci doppie fino al nevaio basale. Da sotto la parete è veramente grande! "Qui o si bivacca là sopra o non la finiamo più!"; Gianni lancia l'idea che si fa progetto. Vada per il bivacco per la prossima volta!

09.08.2010.
E' stata una giornata lunghissima e siamo tutti e tre cotti a puntino. Aprire come si è usi noaltri sistemando soste a prova di bomba ed ancoraggi intermedi là dove le protezioni risulterebbero difficili o impossibili con mezzi tradizionali, significa sobbarcarsi pesi pazzeschi; ed il "pis" che in dialetto bresciano vuol dire tutt'altro ma che per i bergamaschi significa "peso" è la costante di questa giornata; portare a 5 ore di cammino dal fondovalle su una parete alta quasi 800 metri tutto il materiale da armo e da bivacco è stata dura; soprattutto per l'indomito Walter che ha risalito con le jumar tutto il giorno avanti e indietro mentre io e Gianni aprivamo.
Sono ormai quasi le sette di una giornata mite e piena di luce da scoppiare; mi dolgono gli occhi avendo dimenticato gli occhiali da sole; ora siamo riuniti su una cengetta che pare un giardino sospeso, cosparso di ciuffi d'erba impreziositi da tanaceti e ranuncoli; la cengia è un poco sbilenca ma abbastanza spaziosa per tutti; nonostante si resti prudentemente legati, ci si organizza per passare alla meno peggio "a nuttata"!
Mi sveglio; apro un poco la zip quasi completamente chiusa e sento lo scricchiolio del ghiaccio formatosi all'esterno del sacco da bivacco; oltre a tutto quello avevo ho pure indossato il giubbetto di primaloft ma sto appena bene! Sbircio fuori. E' una magica volta tappezzata di rilucenti diamanti aspersi su un velluto nero.

10/08/2010.
Dormicchiamo fino alle sette e mezza; poi, tra lamentazioni e sogghigni si esce allo scoperto; siamo già al sole e si sta magnificamente; ci facciamo un tè e poi tra sornioni commenti sulla notte appena trascorsa ci si prepara; non deve mancare molto; o forse semplicemente lo speriamo!
Gianni ha fatto la parte del leone anche oggi e conduce le ultime lunghezze su una bella roccia rossastra ricca di concrezioni; l'orizzonte si fa sempre più ampio ed il panorama circostante sempre più interessante; la visuale da quassù verso la Cima delle Levade ed il Carè Alto è superba! Gianni ci richiama ed ormai siamo tutti e tre riuniti oltre i grandi blocchi lichenosi sommitali; ci possiamo slegare ed in un minuto siamo sulla sommità circondati da un panorama spaziale. Una stretta di mano ed una foto sono d'obbligo. Poi ce ne stiamo in silenzio a crogiolarci al sole per una decina di minuti e lasciamo che sia la montagna a dirci qualcosa. L'ometto della sommità, coperto di antichi licheni, ci conferma di essere su una delle montagne più neglette del massiccio ma al contempo emblematica della selvaggiosità e del fascino di questo massiccio.
E' giunto il momento di lasciare questo angolo di mondo così magico ed unico; divenuto per noi la tessera di un mosaico di ricordi indelebile; consci ancora una volta di essere stati partecipi di un'esperienza di vita ed amicizia in cui la montagna ha giocato, ancora ed inevitabilmente, un ruolo da protagonista assoluta.

Montagne Raccontate

Dedicheremo questa nuova traccia sui graniti adamellini a Gianni Pasini, forte alpinista orobico che ci ha lasciato per una malattia incurabile alcuni anni orsono. Non l'ho conosciuto personalmente a differenza di quanto abbia potuto fare Gianni Tomasoni che ne fu compagno di cordata. Dai suoi racconti emerge una bella immagine di uomo ed alpinista tutto d'un pezzo, determinato ed appassionato, capace di concretizzare i propri sogni come nella migliore tradizione degli innamorati della verticale.

A.P. settembre 2010

Apertura di "Prigionieri del sogno"

Appunti da una prima agognata ascensione

04/07/2004
Abbiamo attraversato un mare di roccia, un infinito istmo di lastroni talvolta giganteschi e dalle forme bizzarre; stretto fra gli scoscesi coster che si tuffano nel solco dell'invisibile valle e la base di belle e dimenticate pareti articolate in successioni di madidi scudi neri. Un pulviscolo bagnato cala continuamente da sbuffi cinerei che contribuiscono ad aumentare la già significativa percezione di severità di questo luogo. Siamo quasi decisi ad andarcene quando ci troviamo di fronte l'ennesimo ripido e grigiastro pendio nevoso cosparso di detriti. "Se non raggiungiamo la base della parete dopo questo ce ne andiamo?!"; "ok vecio! Ma qui ghe rivemo proprio più!!".
Siamo sotto la ripida successione di placche che più volte abbiamo osservato nelle belle giornate di sole e cieli blu. Nonostante la sommità rimanga avvolta da impertinenti rotolii di grigi vapori, non possiamo che rallegrarci di essere finalmente arrivati ad osservarla da vicino questa parete di roccia compatta e dalle belle striature rossastre ad adornarne la base; quasi ci si trovasse sul granito del Bianco o in chissà quale angolo patagonico. L'intero complesso è davvero bello e l'imponenza del circostante aumenta il nostro entusiasmo più indotto da future fantasie certo che dall'umido latte che va e viene e che pare passarci da parte a parte. Dobbiamo assolutamente tornarci qui!; e quella fessura basale ed il successivo diedro sembrano identificare una linea classica. Niente trapano visto anche lo scomodo e chilometrico approccio. Al massimo qualche spit.

17/07/2005
Ancora una volta abbiamo percorso il mare di sassi e macigni, traversato rossi lastroni da esarazione vasti quanto campi da calcio, caos di grigi pinnacoli tra pozze di neve disciolta, angoli sabbiosi cosparsi di ranuncoli glaciali e tanaceti, ultimi pionieri di queste inospitali alte terre. E per la seconda volta siamo al cospetto di quella che abbiamo ormai adottato come la "nostra" parete. Un angolo di mondo che non potrà mai appartenere che a se stesso ma al quale abbiamo già donato qualcosa di noi ed al quale siamo disposti a donare molto. Sperando forse e fortissimamente desiderando che a sua volta questa costruzione che a noi pare tanto bella possa a sua volta restituirci qualcosa di unico ed irripetibile.
Non ne resteremo affatto delusi.
"Diaol porco!, che sa va gnè sö gnè so!!!" Devo traversare ancora; "lì sopra non mi ci butto; non vedo nulla di logico; son solo placche stra-compatte, placche e placche e basta!!!". Il superamento del grande nevaio ci ha subito creato difficoltà. Staccato dalla parete di oltre due metri. Inutile averlo risalito; la gola fra ghiaccio e roccia è troppo stretta e profonda; oltre la gola, roccia bagnata ed incredibilmente liscia. Avanti con il traverso; ma dopo uno spit e due chiodi sono ancora in mezzo al guado. "Ocio suèn! provo!". Ostrega quanto è liscia!! Finalmente una fessura. La seguo ed arrivo ad un esiguo terrazzino. Altri due chiodi ed uno spit. Sosta. E braccia cotte. Siamo già stanchi e siamo praticamente ancora all'inizio. Siamo messi bene! Marco mi raggiunge. "Vai te ancora va là che io a meter i spit so minga ancora bon!!". Vabbè! Non sono al top della contentezza ma il solito orgoglio del primo di cordata mi fa muovere da sopra la sosta superando un passo da pannello su piattone fino a raggiungere con il fiato corto una sorta di cengia. Altro spit. Mondo ladro quant'è duro metterli a mano nonostante ci abbia fatto il callo. Sarà la quota..mah! Ancora un passo aleatorio, altro spit e acido lattico degli avambracci a livelli siderali. Altro che via classica, ostrega!! Mi affaccio finalmente sul diedro che da sempre abbiamo tracciato come linea ritenuta la più logica della parete. Un diedro che stimo di 6b e su roccia molto liscia e compatta. Ok. Per oggi può bastare. "Vecio, qui sensa trapano ghe restemo su un mese per tresento metri!!!" strilla da sotto l'oriundo delle serenissime lande.
Mesto lungo ritorno nel mare di pietra.

28/07/2005
Il cielo è talmente terso e l'aria così trasparente da eliminare quasi il senso della profondità; e nella latente bidi-mensionalità il grande affresco delle torri si staglia in tutta la sua superba imponenza. "Un angolo così bello e roccia così sana non hanno paragoni in tutta la valle!!". Se a dirmelo è Davide, rifugista da trent'anni del Serafino Gnutti, c'è da credergli. La giornata è semplicemente stratosferica. Siamo a quasi tremila metri a dorso nudo con venticinque gradi di temperatura e manco un filo d'aria. Con queste condizioni sarebbe sublime essere lassù in apertura. Invece le mie ferie e quelle di Marco non sono magicamente coincise e le torri mi tocca guardarle dal basso con l'acquolina in bocca. Ma questa giornata è servita e alla grande! Davide mi ha insegnato un veloce passaggio utilizzato per condurre le pecore al pascolo sopra il coster; un passaggio estremamente agevole che dalla onirica piana del Pantano del Miller consente di raggiungere le basi delle torri in meno di quaranta minuti. Se penso alle infinite traversate del Coster con i loro cosmici campi detritici mi viene quasi da piangere. In discesa erigiamo un serie di artistici ometti con le steli granitiche di cui abbonda il Coster. Prima di scendere nell'alveo principale della valle me ne resto ancora un poco in muta contemplazione dei bellissimi appicchi delle torri prima di voltavi a malincuore la schiena mezzo bruciacchiata.

25-26-27/08/2005
Pietro si è unito a noi. A me è toccato finire la seconda lunghezza originaria divenuta nel frattempo la prima vista l'attuale inconsistenza del nevaio che ci ha permesso di evitare la difficile traversata verso il diedro basale. Entratovi, finalmente, è con emozione che raggiungo una sorta di ballatoio oltre il quale tocca a Pietro continuare le danze. Attrezzata la sosta 1 sempre lui inizia ad attaccare quello che si rivelerà il tiro più difficile percorrendone i primi dieci metri. Dopo di che, essendo il primo giorno di fatiche, decidiamo che per oggi può bastare. Cieli cristallo, aria fredda da mozzare il respiro, granito rosso; non manca nulla per un contesto patagonico. Forse una spruzzata di neve.
E la neve arriva notte facendo.
"Pazzesco! Mi si è mezza gelata l'acqua nella bottiglia!!". Fa un freddo incredibile per la stagione, -7° recita il mio orologio, e battiamo tutti allegramente i denti. Oggi bisogna affrontare il tiro del diedro liscio. Parto. E ci sto sopra quattro ore di durissima lotta a cui il freddo attribuisce un gusto vagamente epico. Uscito ad una bella cengia richiamo Marco che parte arrembante per il terzo estetico tiro fortunatamente più abbordabile del precedente; a metà una punta cede quasi di schianto e la batteria va a farsi benedire in un amen. Ma il domani è ancora nostro!
Siamo rimasti in due per un impegno che ci ha privato del contributo di Pietro. Risaliamo a mezzo di cordini con una "fadiga boia" le corde gelate; "Vecio, ma noaltri no ghe rivemo proprio a comprà ona maniglia jumar???". Sopra è tutto grigio. Marco riparte per finire il terzo tiro iniziato il giorno prima e dopo venti metri i marasmi se lo mangiano. "Gho fato la sosta con uno spit solo? Va ben lo steso??". "Si si va bene anche su un chiodo ostrega basta non restare qui ancora fermo!!". Lo raggiungo, attrezziamo definitivamente la sosta 3, mi agghindo come babbo natale, trapano compreso, e riparto per il non difficile diedro. Certo, fatto così, con dieci chili di materiale sulle anche, le estremità totalmente anestetizzate dal gelo e la roccia fradicia anche un quinto grado merita deferenza! Soprattutto se non si vede nulla cinque metri oltre rispetto a dove si barbella con il naso all'insù! Ecco, perfetto. Ora comincia pure a nevicare; nevischio fitto e bagnato. Arrivo alla fine del diedro in una sorta di nicchia sotto un salto verticale. Qui la neve si è accumulata e ci pesto fino all'orlo delle scarpette. Metto uno spit e diamo l'arrivederci al prossimo anno alla nostra sofferta creazione.

09-10/08/2006
Abbiamo scelto l'estate più balorda degli ultimi dieci anni per finire l'agognata via alla Prima Torre. Di salite ne abbiamo già fatte; ma sempre con freddo e nubi e pioggia a fare da imprescindibile corollario. Partiamo con un livello di determinazione prossima al parossismo ed il primo giorno riusciamo a salire fino alla nicchia raggiunta l'anno prima, superare un salto verticale e continuare per un bel diedro fino ad una comoda sosta. Poi si chiude tutto. Prima è una simpatica spolverata di polistirolo che imbianca dove possibile la verticale parete. Poi le secche e piccole palline si fanno più grosse e bagnate e la ritirata la finiamo sotto scroscianti cascatelle che ci riducono a delle spugne prima ancora che si tocchi la base della parete.
Durante la notte la temperatura è scesa abbondantemente sotto lo zero. La testata della valle si mostra arcigna a dir poco tutta avvolta in continui sfilacciati sipari color perla. Non vi è parte del corno Miller che non sia bianca. Eccetto le torri. Ci arriviamo sotto. Per restarvi mani in tasca e naso all'insù. Con sto freddo e sto umidità orrenda non se ne parla nemmeno di tirarle fuori.

21/08/2006
O la và o la và. Quella che volevamo chiamare "Neverland" in onore alla lontananza e alla selvaggiosità dei luoghi abbiamo deciso di chiamarla "Prigionieri del sogno". Perché prigionieri di questa idea lo stiamo veramente diventando! Questa volta si fa sul serio. Corde fisse, jumar, punte Hilti nuove di trinca. Saliamo in una giornata di gelo e vento tremendo fino alla metà dell'ottava lunghezza dove le batterie, complice probabilmente la temperatura (punta massima rilevata + 4°; minima - 5°), mollano Marco prima del previsto. Nuvole e refoli a go-go. Il sole non lo vediamo per più di due minuti cumulando tutti i secondi.Ed è un sole pallido e smorto.

22/08/2006
Lo spirito è quello da Magellano. Sempre avanti fino alla meta senza guardarsi alle spalle. Perché non ne possiamo davvero più. Saliamo in alternanza inversa rispetto al giorno prima le sette lunghezze percorse perdendo non poco tempo. Parto per completare l'ottava; dimentico gli spit; ridiscendo a prenderli da Marco; risalgo ma dimentico la chiave inglese. Ostie e madonne e litigio tra noialtri di quelli a muso duro con reciproche accuse di leggerezza ed inconcludenza realizzativa. I nostri lai si levano alti fino a valle. Poi, messo da cani, a metà foratura il trapano cessa di funzionare; il contatto del cavo che va dal trapano alla batteria nello zainetto si è spezzato. Ok. Batteria direttamente innestata nel trapano! Scomodo da paura, ci si rompe le braccia ma almeno la batteria dura perché maledizione deve assolutamente durare fino alla sommità!! Lascio gli ultimi dieci metri a Marco. L'impugnatura del trapano è completamente sporca di sangue. Il gelo e la ruvidissima roccia ci hanno rotto tutte le unghie e segato i polpastrelli. Abbiamo gli indici e i medi grossi come carote. "Ghe sono!! So en cresta e vedo la cima!!!". Siamo sotto il pinnacolo terminale. Venti metri di roccia bianca e rossa. Salgo fino ad un primo salto. Sistemo alla base un bel chiodone e lo supero. Sopra trovo un vecchio chiodo. Alla prima ribattuta entra tutto completamente nella fessura in cui è infisso. "La via originaria devia a sinistra ma sicuramente come variante di qui si passa!"; "lassa perder le considerazioni storico-etiche e va su; non ne posso più de stò vento e stò fredo porco!!". Ancora una placchetta impegnativa visto che mi rifiuto di passare in una larga e facile fessura a sinistra. Questa è o non è una via moderna?! Tocco la sommità ed il gigantesco lastrone a mò di cappello che caratterizza la prima torre. E' fatta! Non ci restano che 8/9 doppie ed una dolce discesa a valle.
Veniamo festeggiati dai nostri amici gestori con un fantasmagorico piatto di pizzoccheri accompagnato da un litro di chianti di quello buono. Peccato che si faccia fatica ad impugnare le posate. Usciamo dopo cena. Nubi basse. Domani danno un deciso peggioramento. Ma domani può accadere qualsiasi cosa senza che il nostro sogno, di cui oggi siamo un po' meno prigionieri, possa svanire.

Val Miller, rifugio Serafino Gnutti, Agosto 2006
Montagne Raccontate
Luglio 2004: dopo ore di cammino con un tempaccio da lupi siberiani, finalmente raggiungiamo la base delle Torri; Marco Degiovannini in muta assorta contemplazione.
Montagne Raccontate
Marco Degiovannini in apertura "spacca" dorante una foratura aiutato dal suoi 195 cm di altezza.
Montagne Raccontate
Il solito sipario di nubi ed il solito panorama pseudo-tardo-autunnale fanno da contorno ad un'estate che definire bizzarra è poco.
Montagne Raccontate
Amadio Paolo in apertura nel solito contesto climatico umido e freddo dell' "estate" 2006.
Montagne Raccontate
Dalle Torri il panorama verso N-O con in primo piano Cima Plem ed in secondi piano il Corno Baitone.
Montagne Raccontate
Le belle e slanciate strutture delle Torri del Miller.
Montagne Raccontate
Marco Degiovannini risale la L2, lunghezza chiave dell'itinerario, durante uno dei tentativi della bizzarra e gelida estate 2006, tirandosi dietro una fissa.
Montagne Raccontate
Pietro Merigo un anno prima in apertura sulla prima sezione della L2.
Montagne Raccontate
Apertura di "Prigionieri del sogno". Foto in alto: luglio 2005: Amadio Paolo sulle lisce placche della L1.
Montagne Raccontate
Sul traverso della L0; lunghezza probabilmente sempre meno utile in futuro vista la progressiva veloce riduzione del nevaio alla base delle torri.
Montagne Raccontate
L'ultima lunghezza della via sulla bella cuspide finale della I Torre del Miller.